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mercoledì 18 dicembre 2013

L'aumentato divario tra ricchi e poveri

Ci fu un tempo lungo oltre due secoli, in cui la società europea respirò un'atmosfera di maggiore ricchezza, ma non per tutti. Anzi, soltanto per una sparuta minoranza, che delle ricchezze ottenute grazie alle scoperte geografiche – l'America in primis – godette i maggiori vantaggi. Gli altri continuarono a essere poveri fino all'indigenza e il tasso di mortalità non si abbassò: era frequente che si morisse bambini e l'età media della popolazione non superava i quarant'anni.
Occorsero due secoli abbondanti, perché si trovassero strategie atte a distribuire a tutti i vantaggi della nuova ricchezza e non soltanto alle corti reali e nei palazzi baronali. Furono due secoli in cui aumentò lentamente la cultura, e con essa la consapevolezza dell'uomo di essere artefice della propria vita e del proprio futuro. L'Illuminismo scozzese di Hume, Smith e Ferguson ne fu un esempio. Così come lo fu la crescita della scienza con Galileo, Newton e altri, ivi comprese le sue applicazioni grazie ad artigiani e tecnici, ai quali si devono il telaio meccanico, la locomotiva a vapore e via di seguito.
Quindi, non furono necessarie soltanto strategie, ma anche una crescita culturale, che le rendesse attuabili. A mano a mano che esse si affermarono, nacquero le produzioni di tessuti di cotone, con i quali si vestirono anche i più poveri, perché il cotone costava meno; gli opifici si distribuirono su tutto il territorio, perché ovunque, e non soltanto in prossimità di fonti di energia come l'acqua, grazie al vapore potevano essere azionati i telai e altri strumenti di produzione; grazie allo sviluppo ferroviario anche parti internate e prima abbandonate riuscirono a commercializzare i beni prodotti; a poco a poco si svilupparono tecniche agricole più produttive e non vi fu più bisogno d'impiegare manodopera numerosa, che così ebbe modo di dedicarsi alla neo-industrializzazione.
Certo, inizialmente ci fu sfruttamento, ma poi, grazie alla consapevolezza della necessità della loro presenza, lo sfruttamento cedette il passo al riconoscimento dei diritti della persona, con orari di lavoro meno pesanti e soprattutto con la liberazione dei bambini.
Allora la ricchezza divenne più diffusa e diminuì il divario tra ricchi e poveri. Anche i figli dei proletari studiarono e accrebbero la cultura della loro classe sociale. Questa accresciuta cultura la elevò e le diede consapevolezza del proprio valore. Anzi, finì con il dimostrare che la vera ricchezza non consisteva nell'avere,ma nell'essere. Essere, cioè, menti aperte e depositari di conoscenza.
Una nuova ricchezza si affacciava nel panorama sociale; una ricchezza sempre più diffusa. Adesso non era più un problema di grande divario fra ricchi e poveri, ma quello tra uomini impegnati nello studio e uomini imbelli, adagiati sulle loro effimere ricchezze.
Questa fu la vera rivoluzione industriale, non casualmente nata a metà del XVIII secolo in Inghilterra, l'Inghilterra di Hume, di Smith, di Locke. Un'Inghilterra alla quale dobbiamo la nascita della società del benessere, che fu rallentata nell'Europa continentale da un illuminismo diverso: quello francese, che in molte sue parti – per fortuna non tutte – credeva di poter dominare le leggi della natura, che dovevano sottomettersi alla ragione. Una ragione che non ammetteva alcun limite, per cui coloro che ne erano convinti pensavano di poter cambiare la società e se i loro tentativi causavano povertà e persino morti, ci si difendeva dicendo che presto si sarebbe avuto l'avvento della libertà e del principio di a ciascuno secondo i suoi bisogni. La vita era altrove!
Il comunismo fu l'ultimo doloroso esempio di questo aberrante pensiero. Un pensiero che ha avuto e ha ancora tristi conseguenze sociali e culturali. Esso ha segnato, infatti, un ritorno al Medioevo, quando i più morivano ancora bambini e gli altri rappresentavano la classe ricca, ricchissima, lontana dai veri bisogni della società, troppo abituata all'arroganza e incapace di dare il benché minimo contributo alla società.
Discettare oggi sui problemi della nostra società, dimenticando di guardare ai suoi veri problemi, equivale a essere ciechi come un illuminista francese alla Rousseau. Equivale a pensare che un sistema nato nella nostra mente possa, se calato nella realtà, risolverne tutti i problemi e a renderla felice.
Ma, bisognerebbe dire a questi signori, come pensano di migliorare la vita dei più, se questi più vengono tartassati, aumentando così il divario che li separa dagli avvantaggiati? Come si spera di aiutare la società sempre più povera, se si difendono i privilegi di una casta, che è anche la detentrice del potere di fare leggi?
Questa casta non sta distruggendo i vantaggi di secoli, ma per ignoranza sta distruggendo anche se stessa. Se, infatti, la percentuale dei poveri sarà sempre più grande, chi consumerà, se non soltanto i ricchi, sempre meno numerosi? E i loro consumi riusciranno a essere tali da consentire di mantenere la produzione? E se la produzione di beni diminuirà, che fine farà il lavoro di tanti operai? Non andremo incontro a una povertà peggiore di quella medievale, visto che a essa non siamo più abituati come lo erano gli uomini del Medioevo?
Di fronte a questi problemi si tace. La casta crede, come la maggioranza sempre più disperata, che tutto potrà essere risolto da un sempre maggiore statalismo, non accorgendosi che proprio un eccesso di statalismo è stato la causa di questi problemi: siamo alla psicanalisi di Freud, che è la malattia che cura se stessa.
Forse sarebbe ora che ognuno di noi facesse il proprio dovere non con i lamenti, ma con il massimo della consapevolezza delle cause vere dei problemi e senza gli infingimenti e le mistificazioni ai quali dovremmo essere ubbidienti, come vorrebbe la casta, che ce li propina ogni giorno. La casta a ogni livello; i forconi nutritisi fino a oggi alla mammella di mamma Stato; i politici che promettono di cambiare il mondo, non precisando, però, che vogliono cambiarlo retrocedendolo; i sindaci incapaci d'indicare soluzioni vere e disposti a dare la colpa a mamma Stato o ai loro predecessori; i sindacalisti che alla crescita della ricchezza hanno anteposto la redistribuzione, dimentichi che finita la ricchezza non si ha nulla da distribuire.
L'elenco potrebbe continuare per lunghi capitoli, ma non servirebbe a nulla, se non prendiamo coscienza che in questi ultimi cinquant'anni non siamo stati derubati, con la nostra complicità, soltanto di ricchezza materiale, ma anche di libertà, di dignità e di futuro.
È tempo di dire basta!

martedì 10 dicembre 2013

La tirannia dei dilettanti allo sbaraglio

Vilfredo Pareto scrisse che “la storia è un cimitero di aristocrazie”, intendendo con il termine aristocrazia élite, che altro non è, se non l'aristocrazia nella democrazia.
Mai come ai nostri giorni le élite sono finite con tanta rapidità. Si pensi alla classe dirigente democristiana, i cui rappresentanti cambiarono quasi con cadenza annuale (Fanfani, Moro, Colombo, Rumor, Piccoli eccetera); si pensi a quella socialista, i cui rappresentanti cambiarono con cadenza più lunga, ma pur sempre troppo breve; quella comunista cambiò con minore cadenza, e questo le permise di durare più a lungo e di superare le difficoltà delle altre élite, essendo essa più abituata a servirsi della demagogia. Tralascio le altre élite e mi soffermo sulle loro degenerazioni: la caduta nell'aristocrazia di un solo uomo, Berlusconi.
Se riandiamo con la memoria alla storia politica greca, vi ritroviamo non pochi pensatori che, riflettendo sulla ineluttabilità di questo decadimento, distinguevano un passaggio dall'oligarchia (il governo di pochi) alla democrazia (il governo di tutti), poi dalla democrazia alla demagogia ( il governo dell'inganno) e infine alla tirannia (il governo di uno).
Non voglio portare a esempio, per dimostrare quanta verità c'è in questa riflessione, la politica nazionale, troppo lontana dal nostro quotidiano, e mi limito a quella locale, a quella comunale. I giovani ne conoscono soltanto la parte di questi ultimi anni, ma coloro che hanno la mia età hanno vissuto gli anni d'oro della democrazia, quando fu sindaco di Cefalù Giuseppe Giardina e quando la vita sociale ed economica del Paese era affidata a élite culturali dai meriti indubbi.
Questa élite era seguita da tutto il popolo e persino quelli che le si opponevano ne avevano rispetto per le sue indiscutibili qualità.
Poi le cose cambiarono e con esse cambiò l'élite. Prima prese campo la corruzione e poi, quando la situazione di crisi dilagante rese difficile la corruzione, subentrò la demagogia, finché non siamo caduti nella tirannia. Non trovo, infatti, altro sostantivo per definire l'attuale sindacatura Lapunzina, uscita dalle urne senza maggioranza in Consiglio, quasi a voler sottolineare che i cittadini non si fidavano e volevano una opposizione in grado di controllarlo.
Non potevano prevedere, i cittadini, che avrebbe usato la situazione disperata del Comune per convincere parte di questa opposizione ad appoggiarlo nell'interesse della Città. Le sue proposte, però, non erano e non sono in grado di fare il bene della Città, per cui alcuni consiglieri, resosene conto, lo hanno lasciato in balia di una finta maggioranza. Con il risultato che egli è rimasto solo ad amministrare ed è stato trasformato giocoforza in un tiranno. Soprattutto se si considerano i troppi silenzi di coloro che dovrebbero collaborarlo.
Come accade a tutti i tiranni, presto una sorta di delirio di onnipotenza si è impadronito di lui, facendogli affermare spesso rispettami, sono il Primo Cittadino oppure che l'acqua è potabile, anzi non lo è e persino che il dissesto finanziario non c'è più, rimangono soltanto i debiti. Tutte affermazioni fatte con troppa serietà, dallo stesso Sindaco e da alcuni suoi seguaci, poco consapevoli che i cittadini li prendono per quel che sono: esempi di dilettanti allo sbaraglio.
Inconsapevoli, essi aumentano i rischi del Paese e preparano a se stessi una fine ingloriosa. Andranno, come diceva Pareto, a popolare l'ennesimo “cimitero delle aristocrazie”, non avendone, però, incarnata neppure l'apparenza.

sabato 10 agosto 2013

La "misera paga" degli amministratori

Dire che le somme pagate per gli emolumenti degli Amministratori sono al lordo delle imposte, non significa nulla, almeno con riferimento a ciò che i cittadini pagano, comprendendo tale cifra tanto il netto quanto le imposte. E' la stessa cosa che si verifica nel caso degli operai, che incassano una busta-paga di 1.000,00/11.200,00 euro, ma costano al datore di lavoro oltre 2.000,00 euro.
C'è una sola differenza: nel caso dei pubblici amministratori il datore di lavoro sono i cittadini e per cinque anni a essi non è dato licenziare, se i dipendenti non rendono e persino se causano un danno al sistema produttivo dell'impresa. In verità troppo spesso non osano licenziare neanche alla scadenza dei cinque anni.
Questa differenza comporta pure che i dipendenti-amministratori, quando commettono errori, che causeranno, prima o poi, danni, non risponderanno mai di essi o perché verranno alla luce quando ormai sono fuori dalla politica attiva o perché con un po' di demagogia e con qualche ricorso al TAR ne nasconderanno l'esistenza. Cosa non molto difficile, se si tiene conto della grande diffusione del rifiuto alla comprensione logica da parte dei cittadini.
Ci sono, è vero, i bilanci, ma oggi si vogliono esautorare di competenze e giurisdizioni coloro che li controllano – i magistrati della Corte dei Conti – per conservare la possibilità di scrivervi liberamente numeri figurativi e per gestire il comune come se fosse una res nullius.
Ecco i veri costi della politica! Se gli amministratori fossero più attenti al possibile e all'oculatezza, forse si eviterebbero costi – magari divenuti debiti fuori bilancio – che causano spesso per delirio d'onnipotenza, per fedeltà a verità ideologiche, per incompetenza e persino per un'irresistibile amore per l'inganno, con il quale coprono come con un velo pietoso la loro incomprensibile agitazione.
Sarei disposto a raddoppiare gli emolumenti degli amministratori, se svolgessero meglio il mandato, per il quale sono stati eletti. E, quindi, se i cittadini fossero tutelati da un controllo più stringente degli eletti, come stava per accadere, se la Corte Costituzionale non avesse sentenziato che, perché ci fosse tale controllo, era necessario che la Regione Sicilia recepisse prima la norma. (Un giorno qualcuno dovrà spiegarmi perché lo Statuto, votato prima della Costituzione, fu inserito in questa con la sola opposizione di Luigi Einaudi)
Allora, per concludere, questi emolumenti sono poco o molto?
Sono troppo, se si considera che le decisioni amministrative vengono troppo spesso prese con incompetenza e irresponsabilità – anche da parte di funzionari-dirigenti, che percepiscono spesso un supplemento per l'esercizio della loro incompetenza.
Sono poco, se essi dovessero essere capaci di studiare con impegno ogni problema del Paese e di proporre soluzioni, che non siano o la semplice e ridicola fuga dell'attribuire al passato ogni responsabilità o i palliativi dei circenses. Se essi, cioè, fossero in grado di ripristinare una fede nel futuro della società che amministrano.
Sta a voi lettori controllare con scienza e coscienza e decidere se gli emolumenti siano più o meno meritati.

sabato 22 giugno 2013

La filiera clientelare

Potremmo convincerci, a guardare le cose italiane, che siamo in presenza di un ritorno alla società feudale, che da Carlo Magno al secolo XIV governò l'Europa, permettendo, fra errori e crisi d'ogni genere, una lenta crescita socio-economica. In questi secoli di feudalesimo imperante nacquero, infatti, le università, le cattedrali e i parlamenti. Si affermarono le realtà comunali e ad alcune di esse si deve lo sviluppo della marineria commerciale (Venezia, Genova ecc.) e non pochi degli strumenti necessari per una contabilità, che esigeva un sempre maggiore controllo (la partita doppia dei Fiorentini, i banchi fiorentini e fiamminghi ecc.).
Tutto subì un notevole rallentamento – quando non pure un regresso – quando il famoso Re Sole, quel guerrafondaio di Luigi XIV, non decise di affidare il suo regno a propri servitori, che finirono con il formare la cosiddetta nobiltà di toga, in opposizione alla nobiltà di spada, ch'era stata il primo sostegno del feudalesimo di Carlo Magno.
Era la degenerazione del feudalesimo. Questa nobiltà di toga era formata dai servi sciocchi del re assoluto, che controllavano in suo nome i tribunali, le famigerate esattorie e ogni respiro dei cittadini, sudditi per l'occasione. Era nata la burocrazia!
Quando poi, con la Rivoluzione francese, emise i suoi primi vagiti la pseudo democrazia dell'Europa continentale – perché quella inglese rispettò di più le autonomie locali, base del feudalesimo – i rivoluzionari, che della nobiltà di toga erano gli esponenti, conservarono alla Francia il suo centralismo, che presto fu imitato in tutto il resto d'Europa, Italia compresa.
Questa dittatura della burocrazia tornò utile anche ai politici, che la difesero e la potenziarono, per difendere i loro privilegi. Vani furono i tentativi dei costituzionalisti per correggere le disfunzioni di questa pseudo democrazia, negatrice di libertà e di dignità dei cittadini. Essa continuò imperterrita ad affermarsi, anche quando nacquero le prime associazioni sindacali e partitiche, perché non le si considerò uno strumento per potenziare le libertà locali, ma soltanto strumenti per difendere privilegi.
Ed è nel privilegio che risiede la forza della nuova burocrazia e della nuova politica, reciprocamente complici. Non potrebbero sopravvivere, se il cittadino la smettesse finalmente di considerare lo Stato come elargitore di privilegi e non come difensore della giustizia e dell'uguaglianza. Questo cittadino, che è un bimbo ubbidiente, perché mamma-stato gli dà la marmellata o gli compra un regalo, ma è pronto a frignare, quando non viene accontentato. Questo cittadino, che vede nella giustizia il vendicatore dei presunti torti subiti, che però egli stesso si è procurato. Questo cittadino, che non vuole crescere!
Questa lunga premessa è utile per capire l'oggi. I sindaci, le burocrazie comunali; i presidenti regionali, i consigli regionali e le loro burocrazie; i partiti politici e i movimenti, i sindacati, tutti con organizzazioni solo apparentemente prive di un controllo centralizzato; tutte queste cose formano quella che può essere definita la filiera clientelare.
Ci sono state e ci sono alcune eccezioni, ma sono troppo lontane dalla nostra realtà siciliana. Anzi, quando le accertiamo, queste eccezioni, confessiamo invidia e poi concludiamo che da noi non possono affermarsi e non ci rendiamo conto quanto sia poco dignitosa questa affermazione, che è soltanto la prova della nostra inettitudine o della nostra pigrizia mentale, quando non pure della nostra assuefazione all'ubbidienza e del nostro scarso coraggio.
Sarebbe ora che ci svegliassimo e dessimo torto al Principe di Lampedusa, che affermava, nel momento della conquista della libertà, che i Siciliani amano il sonno e detestano quanti cercano di svegliarli. Sarebbe ora che gli uomini, che hanno gusto per la libertà, si facessero avanti e facessero sentire la loro voce; sarebbe ora che si dichiarassero disponibili a farsi carico dell'impegno ad amministrare il loro comune e offrissero ai cittadini una mano per salvarli dalle ottuse agitazioni e per liberarli da poteri soltanto difensori privilegi.
Sappiano, infatti, questi cittadini, che difendere i privilegi invece della giustizia equivale a restare in balia del più forte, al quale toccherà sempre la fetta più grande a scapito della loro e di quella dei loro figli.
Liberatevi finalmente non del ricco, ma della burocrazia e di quella politica sua alleata.

venerdì 21 giugno 2013

Tassa e spendi

Tassa e spendi: questa sembra l'unica cosa che i nostri politici sanno fare, a destra e a sinistra. Non se ne vergognano, perché raramente capiscono.
E' così in tutta Italia e a ogni livello, nazionale, regionale e comunale. Ricordo spesso Bernardo Tanucci, che fu ministro delle finanze del Re delle Due Sicilie e che volle scritto nel suo epitaffio: non impose mai una nuova tassa. Ma senza andare così lontano, altri uomini della nostra disgraziata Repubblica meriterebbero di essere ricordati per la stessa ragione: Einaudi, Menichella e Pella.
E invece nessuno li ricorda, per cui siamo ridotti a credere che la politica fa schifo e che non vale la pena d'interessarsene, come se nasconderci sotto la sabbia facesse scomparire la realtà.
Consentitemi, per spiegare le cause di tale situazione, un breve riferimento alle dottrine politiche. Quasi tutti gli Autori affermano che il potere statale nasce da una sorta di contratto sociale, più o meno tacito, che ha la sua ragion d'essere nel fatto che contribuisce al crescere della collaborazione fra i cittadini, per il progresso sociale e per garantire pari dignità a ognuno.
Quando questo impegno viene meno, lo stato non ha più giustificazione e, quindi, autorevolezza. Allora si è autorizzati, secondo alcuni, al regicidio e secondo altri, più vicini ai nostri tempi di democrazia, alla rivoluzione o alla disobbedienza civile.
E' difficile, però, arrivare al punto di rottura, perché esso viene sostituito da una lenta lisi, alla quale ci abituiamo così tanto, da non accorgercene. E quando ce ne accorgiamo, abbiamo reazioni così inconsulte, che usiamo il voto, l'unica e potentissima arma in mano nostra, come una protesta contro qualcuno e votiamo senza tener conto di quel che urge fare.
Dopo questo breve excursus storico-dottrinale, non vedo come non considerarlo un valido strumento per spiegare la situazione attuale, che io chiamo del tassa e spendi. Venuto meno ai principi, che ne avrebbero giustificato l'esistenza, questo Stato ha perso autorevolezza e ha stimolato un sempre crescente desiderio dei cittadini di disubbidire. I politici, che dovrebbero farsi interpreti della loro voce, sembrano ormai sordi a essa, chiusi come sono nel loro fortilizio assediato e ormai prossimo a cadere. Fanno, quindi, come i Lucchesi del '500, che all'avanzare dei Pisani andavano loro incontro e offrivano grosse somme di denaro, per convincerli di desistere dall'assediarli. Proprio come fanno i politici di oggi, quando sono candidati: escono per le strade e le piazze e offrono promesse d'ogni genere ai cittadini, che essi considerano soltanto clienti.
Questi clienti ormai sanno che quelle promesse non possono essere mantenute e allora o protestano, affidandosi al demagogo di turno, o nascondono la testa sotto la sabbia, non votando.
Da qualche tempo, almeno a livello comunale, ci si è reso conto che questi clienti devono essere pagati subito. Li si convince, allora, ch'è necessario un loro contributo, di qualsivoglia natura, persino per offrire i cosiddetti circenses, che nell'antica Roma erano i giochi al Colosseo e che in questa Repubblica sono le feste patronali e qualunque altro divertimento, che coinvolge la fantasia popolare. E allora ecco comitati su comitati, che raccolgono questue per finanziare tali divertimenti, anche quelli che diseducano o lasciano l'amaro in bocca.
Questue, che non riguardano soltanto i divertimenti e le feste patronali, ma ormai anche il finanziamento dell'ordinaria amministrazione, per la quale i cittadini sono non solamente tassati, ma anche tartassati. Non siamo più di fronte a un'esagerata pressione fiscale, ma stretti da una pressa fiscale, della quale gli amministratori locali non sembrano rendersi conto, tant'è che stanno vicini a tale pressa con un bicchiere, con il quale tentano di raccogliere qualche goccia di sangue, che cade dal corpo maciullato del povero cittadino.
Fa specie che, a fare questo, siano quegli amministratori, che dovrebbero difenderci da chi aziona, con le sue leggi al di fuori di ogni principio etico e di uguaglianza, la pressa fiscale.
L'imposta brevità di un blog mi ha costretto a sintetizzare al massimo, ma spero di essere stato chiaro. Comunque sono pronto ad approfondire l'argomento con chi me lo chiedesse.

mercoledì 19 giugno 2013

L'inarrestabile crescita dell'ottusità

Un tempo non troppo lontano era diffusissima la consapevolezza che, se si volevano avere buoni professionisti e persino esperti, era necessario prima costruire l'uomo e poi su questa struttura poteva modellarsi quel che si voleva. E che cosa può essere più utile, per questo scopo, dello studio della filosofia, dei classici e di quant'altro può sviluppare la logica? Non per nulla fino a pochi decenni fa coloro che provenivano dal liceo classico potevano iscriversi in tutte le facoltà universitarie e quelli provenienti dal liceo scientifico dovevano sottostare ad alcune limitazioni. Gli altri, quelli provenienti dalle scuole tecniche, dovevano superare un esame d'ammissione, per dimostrare di essere uomini maturi. E quanto fosse importante questa maturità era dimostrato dalla norma che, superati i quarant'anni, ci si poteva iscrivere in qualsiasi facoltà, anche senza alcun titolo di studio, perché la maturità si era acquistata sul campo.
Oggi le cose procedono diversamente. Nessuno si preoccupa più di costruire l'uomo, ma ci si accontenta di costruire l'esperto, il professionista e persino l'insegnante. Si creano così fonti d'ignoranza, perché incapaci di analisi e di sintesi, uomini senza storia e senza capacità critica, disponibili come nessuno mai a sguazzare nel mare delle interpretazioni di norme create da altri come loro, con piena ottusità persino dei problemi, che vorrebbero risolvere.
E siccome piccoli uomini simili non avrebbero mai la capacità di coltivarsi persino una lattuga, sono tutti a piatire un “posto”, dove a nessuno viene in mente di chiedere, prima di pagare lo stipendio, se l'hanno meritato con un intelligente impegno. E dove, per di più, conquistano l'autorità di dominare i cittadini, inermi di fronte a questa pericolosissima e crescente ottusità, che persino essi condividono, per essere sempre più spesso figli di un sistema scolastico fonte d'ignoranza.
Anche se non brevemente, tutto ciò potrebbe essere superato, se la politica lo volesse. Ma la politica si serve della demagogia e inganna i cittadini, per servirsene poi per seguire i propri ottusi tornaconti. Ecco perché i giovani non ottusi se ne fuggono all'Estero, dove ancora non si è diffuso il culto della ottusità e dove mangia le lattughe soltanto chi le sa coltivare. E non sono pochi questi giovani: almeno duecentomila all'anno! Un impoverimento, che ci costringerà a sopportare ancora più inermi l'attuale diffusa ottusità. Personalmente sono più tranquillo per due ragioni: perché mio figlio è uno di questi duecentomila giovani andati all'Estero e perché non mi resta molto da vivere.
Abbastanza poco per sopportare il casuale e non cercato ascolto delle conversazioni fra funzionari e dirigenti pubblici, fra politicanti e clientele, che si svolgono fra i tavoli di un bar, dove amerei leggere e contemporaneamente stare a contatto con il mondo. E all'orecchio mi giungono le conversazioni più povere di argomenti, perché il tono della voce è più forte in coloro che hanno il cervello più vuoto. E' semplicemente stentoreo.

lunedì 17 giugno 2013

Le vicissitudini della Tares - il tributo comunale sui rifiuti e servizi indivisibili, la cui prima rata è di imminente scadenza in molti comuni - sono uno degli esempi più lampanti nel recente panorama tributario delle condizioni di sudditanza del contribuente italiano.
Introdotta alla fine del 2011 per sostituire la Tarsu e la Tia (la tariffa di igiene ambientale) e compensare i tagli dei trasferimenti statali, è evidente che la Tares costerà di più della somma dell'una e dell'altra, sia perché deve far fronte alle difficoltà di bilancio degli enti comunali, sia perché deve coprire al 100% i costi per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, che non erano integralmente coperti dalla precedente tassazione.
Ma, a parte il non piccolo particolare del livello di pressione fiscale locale, ciò che stride rispetto a un sistema tributario "sano" è che sulla Tares sono cuciti due tributi di natura diversa: la tassa sui rifiuti - ossia il corrispettivo per lo specifico servizio di gestione dei rifiuti - e l'imposta per i servizi indivisibili - ossia un onere fiscale richiesto a prescindere da un criterio di corrispettività rispetto a un preciso servizio e che serve a finanziarie spese indivisibili come anagrafe o polizia locale.
Di conseguenza, il cittadino sa di dover pagare probabilmente di più rispetto agli anni precedenti, ma non sa se questo di più servirà a migliorare la qualità di qualche servizio, data appunto la quota per servizi (e spese) indivisibili.
Quest'ultima quota, inoltre, è una vera e propria tassa patrimoniale, che si somma ad un'altra patrimoniale già pagata sugli immobili - l'IMU - facendo della Tares una sorta di Frankenstein fiscale che, oltre ad avere una doppia natura fiscale, è una sorta di doppione di un tributo già esigibile per il medesimo presupposto impositivo, in spregio ai principi fondamentali del diritto tributario.
Se vista poi dal lato della certezza del diritto - carattere che dovrebbe essere fondamentale nel diritto tributario, dove ogni errore è in genere colpa del contribuente - a solo una settimana da quella che doveva essere l'entrata in vigore dell'imposta, la legge di stabilità per il 2013 ne ha differito ad aprile 2013 l'operatività, per poi posticipare ulteriormente il versamento della prima rata al primo luglio 2013.
Ad aprile, stanti le difficoltà di rendere operativa la riscossione del tributo, il governo ha deliberato che, per l'anno 2013, le scadenze venissero fissate dai comuni.
A meno di tre mesi da quello che doveva essere il pagamento del primo acconto, gli italiani non sapevano quanto e come pagare. Tutt'ora, molti comuni non hanno ancora deliberato, mentre altri hanno fissato scadenze entro il mese di giugno e l'agenzia delle entrate ha approvato bollettini e codici di pagamento solo alla fine di maggio.
Insomma, l'unica certezza è stata ancora una volta che si pagherà di più