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lunedì 26 dicembre 2016

Le invasioni prima di Crocetta

C'è un nome, che dà alla Sicilia lustro più di quanto ne diano tanti altri, succedutisi nei secoli in questa terra straordinaria, che oggi soffre proprio a causa dell'ignoranza di tale nome. Il nome di un uomo coraggioso e intelligente, che ai suoi tempi si batté per l'indipendenza della Sicilia dai Greci e dai Fenici-Cartaginesi. È il nome di Ducezio.
In questo periodo natalizio, che non è proprio un periodo di pace fraterna fra gli uomini, ma di attentati e di morti, di bambini senza futuro e sofferenti, di arroganza e supponenza di coloro che dicono falsamente di volere il bene di tutti: in questo periodo di agonia della nostra civiltà è giusto e doveroso ricordare Ducezio, che per questa civiltà si è battuto per tutta la sua vita.
Ricordarlo equivale a ricordarci della nostra storia, che non sfigura di fronte ai Comuni medievali in lotta per la libertà o alle rivoluzioni dell'Ottocento, che resero migliore l'Europa. Se egli avesse vinto, sarebbe migliore anche la Sicilia; se noi lo ricorderemo, imparandone la lezione, riusciremmo a riprendere il cammino verso tale miglioramento e la Sicilia sarebbe ancora una volta indicata come un faro di civiltà e di tolleranza, come lo fu con Ruggero II e con Federico II.
È con questa speranza che tento un veloce excursus storico degli albori della storia della Sicilia.
Certamente di quel periodo storico non abbiamo testimonianze dirette, ma ci vengono in aiuto gli storici Tucidide e Diodoro Siculo, che nei loro scritti fecero spesso riferimento a esso, riportando notizie e nomi, che altrimenti sarebbero oggi dimenticati. Un altro aiuto ce lo dà anche il poeta Omero, a condizione di leggere nella sua Iliade non i fatti derivanti dalle gelosie degli uomini o degli dei, ma le conseguenze dello scontro titanico dei Greci contro gli Ittiti dell'attuale Turchia.
Apprendiamo dai due storici che dalla fusione dei Sicani con i Siculi venne fuori il primo popolo siciliano, che diede nome alla Sicilia, che i Greci si ostinarono a chiamare Trinacria per la sua forma. Ducezio era dunque quello che oggi chiameremmo un siciliano doc, perché figlio di un popolo, che nulla aveva a che vedere con le altre popolazioni del Mediterraneo d'allora. Quando questo popolo si era già insediato nell'Isola e aveva imparato a sfruttarne il territorio, creando città e sviluppando l'agricoltura, l'espansione di altri popoli determinò un cambiamento nella vita dei Siculi, che si videro minacciati dai Greci a oriente e dai Fenici a occidente, anche se entrambi provenivano da oriente rispetto alla Sicilia: i Greci dalla montuosa e povera penisola greca e i Fenici dall'attuale Libano.
Tra i due popoli invasori c'era una sostanziale differenza. I primi, i Greci, avevano in mente la conquista di tutta la Sicilia. Ovunque arrivavano, fondavano le loro città e scacciavano le popolazioni residenti, non disdegnando di ricorrere perfino al genocidio.
Diverse erano le intenzioni dei Fenici. A loro interessava creare approdi utili a svolgere il loro commercio, per il quale era indispensabile che le popolazioni originarie continuassero a esistere. In fondo erano pacifici mercanti, che rifuggivano dall'uso delle armi. La pressione dei Greci e l'arrivo degli Elimi, in fuga dall'attuale Turchia minacciata dagli Ittiti, spinse all'alleanza i Fenici e gli stessi Elimi, che insieme combatterono contro i minacciosi Greci.
I Siculi si trovarono stretti nella tenaglia di questi popoli e si ritirarono verso l'interno dell'Isola, fondando nei luoghi più facili da difendere nuove città. Nacquero così Morgantina, Pantalica, la stessa Butera – che prese il nome dal suo fondatore, il mitico re siculo Bute – e altri piccoli centri. Ecco la ragione per cui tutti i ritrovamenti archeologici di queste città sono diversissime da quelle delle città greche.
In questo periodo, caratterizzato da guerre tra Greci e Cartaginesi e persino tra le città greche, i Siculi vivono come asserragliati all'interno della Sicilia, quando il loro re Ducezio decide di creare un regno siculo, fondando la sua capitale Paliké, e di scacciare gli invasori Greci e Cartaginesi dalla Sicilia. Combatte per vent'anni, finché non cade prigioniero dei Greci di Siracusa, dove parla nell'agorà con orgoglio e senza paura. Colpiti dalla sua personalità, i Greci lo risparmiano, ma lo costringono all'esilio nell'Italia meridionale. Ducezio però fugge e ritorna nella sua Sicilia, pronto a riprendere la lotta contro gli invasori. Fonda sui Nebrodi la città di Calacte, oggi Caronia, e riprende la lotta, che interrompe soltanto con la morte, quand'era poco più che quarantenne.
La sua eredità, fatta di orgoglio e di coraggio, non è morta con lui, se noi la ricordiamo e del ricordo ci serviamo per continuare la sua lotta per la Sicilia e per la sua libertà dai Crocetta e dai deputatini della sua Assemblea regionale, più pericolosi degli invasori greci e fenici.

domenica 30 ottobre 2016

Catone è il nuovo sindaco di Cefalù

A Cefalù, da quando c'è questa Amministrazione, sapere e creatività sono stati banditi. Ufficialmente regna la felicità, ma la paura vaga per la città, una paura avvertita da tutti. Una paura che non sa fare sentire la sua voce e quando tale voce cerca di venir fuori, essa viene zittita dalle mistificazioni di chi accusa coloro che se ne fanno interpreti di soffrire di una forma di ipercriticismo o di “voler fare politica” - come se fare politica sia un diritto dei soli rappresentanti eletti. A costoro può contestarsi che la loro opinione della democrazia ha un peccato originale: quello di pretendere di essere prescelti a rappresentare i cittadini da chi non “fa politica”; da quelli, cioè, che non possono giudicarli. Questa non è democrazia!
Contestarglielo, però, non serve, se la contestazione non è seguita da una bocciatura elettorale. Ma perché essa possa esserci, è necessaria la partecipazione dei cittadini alla vita politica; soprattutto, è necessario che l'opinione pubblica impari ad avere più consapevolezza dei problemi della realtà che la circonda. Soltanto così gli uomini potranno rendersi conto della frattura esistente fra i propri convincimenti e la propria esistenza; potranno definirsi cittadini, che hanno consapevolezza dei propri principi.
Per la politica nazionale, i cui problemi pretendono, per essere risolti, una capacità d'astrazione e di preparazione oltre la media, questa consapevolezza dei propri principi e del modo più idoneo per affermarli presenta non poche difficoltà. Difficoltà, che possono essere superate grazie all'intermediazione di opinion leaders, che provvedono attraverso la loro parola a semplificare la conoscenza dei problemi della società.
Il punto, allora, è quello di saper scegliere tali intermediari. E chi sono costoro, se non coloro che hanno dimostrato di saper risolvere i problemi del proprio comune? Coloro che, avendo saputo risolvere i problemi della piccola comunità, si sono guadagnata la fiducia dei cittadini, che di quei problemi avevano consapevolezza, scienza e coscienza.
Ecco allora l'importanza di un sindaco e degli amministratori locali. Essi, come il buon padre di famiglia, sono gli interpreti della saggezza, guadagnando la stima dei propri amministrati e, quindi, anche la credibilità per consigliare le scelte elettorali nazionali.
Da alcuni anni purtroppo si sono invertiti i ruoli. I cittadini sono stati convinti, infatti, che per essere un buon sindaco si deve godere di “amicizie” “in alto”, alle quali chiedere finanziamenti, spesso per investimenti che un saggio non farebbe mai. Lentamente questa mentalità ha corrotto la società e i cittadini si sono ritrovati in balia di politici senza principi, ignoranti e talvolta anche materialmente disonesti. E di conseguenza è degenerato anche il livello della classe politica comunale. Adesso è tardi per lamentarsi e accusare i politici scelti di tutte le nefandezze possibili e di egoismo. È tardi per lamentarsi, ma non è tardi per rimediare.
Basta soltanto prendere coscienza dei nostri errori e togliere la nostra fiducia a chi l'ha tradita. Basta fare un esame approfondito degli errori commessi a Cefalù dall'attuale Amministrazione, per non rinnovarla ai suoi uomini alle prossime elezioni amministrative. Suggerendo, magari, di chiedere agli organizzatori del giro ciclistico nazionale una bicicletta per liberare più velocemente il Paese della loro presenza.
Allontanatisi costoro, rivolgersi al nuovo; rivolgersi a coloro che i Romani chiamavano homines novi, perché non solo essi, ma anche i loro avi, non avevano mai ricoperto cariche pubbliche. Questi uomini nuovi non è difficile sceglierli, in un comune dove ci si conosce tutti e dove ognuno conosce i comportamenti dell'altro. Conosce anche i suoi pregi e i suoi difetti, per cui potrà sbagliare soltanto a causa della pigrizia di usare l'intelletto o a causa di una personale rinuncia alla propria dignità di uomo libero.
Vedremo che cosa accadrà.

sabato 29 ottobre 2016

Mandralisca: la Regione risponde "marameo!"


Fermi alla stazione ferroviaria di Cefalù, il Sindaco e il Presidente del Museo, circondati da uno stuolo di amici e sostenitori, aspettano che arrivi il treno da Palermo. Quel treno sul quale viaggia un Assessore regionale con una valigia colma di ben 290.000 euro, da dare al Museo Mandralisca.
La campanella suona con il suo trillo assordante e tutti se ne stanno in silenziosa e ansiosa attesa. Pensano. Pensano al rilancio del Museo, fiore all'occhiello di Cefalù insieme alla Cattedrale. Se qualcuno potesse entrare nella mente di quegli uomini, però, si accorgerebbe che non stanno pensando, ma soltanto fantasticando. Fantasticano sul come pagare i trenta mesi di stipendi arretrati dei dipendenti del Museo, facendo credere, però, che lo si deve a essi e alla loro forza politica; fantasticano su iniziative per il rilancio del Museo e già vedono frotte di turisti salire per le sue scale, dopo aver pagato il biglietto d'ingresso; fantasticano sul numero di novelli sposi, che pagheranno per essere immortalati in foto ricordo davanti all'Ignoto Marinaio, che ne avrà ben donde di sorridere.
Fantasticano, insomma, come fantasticava la bambina di una famosa favola, che recava in testa un paniere con le uova da vendere al mercato e intanto nella sua mente investiva il presunto ricavato, gioendo al pensiero dei suoi futuri grandi acquisti. Camminava e a ogni passo si sentiva sempre più ricca, quando inciampò su una pietra e le uova finirono rotte per terra. Il sogno era finito!
Lo stesso accadde, quando la campanella smise di trillare e il treno apparve, procedendo lentamente e sferragliando. La locomotiva passò davanti alla pensilina, sotto la quale stavano gli ansiosi, e fu seguita dai primi vagoni. I passeggeri, incuriositi da quel numeroso assembramento e dalla presenza di un uomo con una fascia tricolore, se ne stavano affacciati ai finestrini. Quando giunse infine il vagone con l'Assessore affacciato a uno dei finestrini, tutti cominciarono ad avvicinarsi, superando persino la striscia di sicurezza. Il treno sembrava fermarsi, quando l'Assessore, mettendo il pollice sulla punta del suo naso e facendo agitare le altre quattro dita, disse: Cucù! Marameo!
Sembrò un segno convenzionale, perché il treno accelerò e scomparve alla vista degli ansiosi. Ci vollero parecchi minuti prima che uno di loro ritrovasse la parola. Era l'uomo con la fascia, che disse: andiamo! Noi il nostro dovere l'abbiamo fatto. Non è colpa nostra, ma di...Si fermò, perché non aveva trovato ancora un nome per il capro espiatorio.

giovedì 27 ottobre 2016

L'Italia delle mance

L'Italia sembra un grandissimo bar o un altrettanto grande ristorante, dove i politici si siedono a bere e mangiare, lasciando poi una mancia ai camerieri; cioè, ai cittadini, che con le loro tasse hanno servito bevande e pasti. E non solamente servito, ma anche pagato! Eppure in tanti credono di essere stati ripagati correttamente con le mance!
Mi piacerebbe, invece, che essi si considerassero offesi da un simile comportamento dei politici. Certo, molti di loro offesi lo sono e non fanno altro che lamentarsi della politica, ma non sembrano avere le idee chiare su una corretta strategia di liberazione da questa tirannia della disonesta stupidità dei politici e dei loro accoliti o dei loro servi sciocchi burocrati.
Lo dico prima di proseguire: lo so che non c'è in questo momento un'offerta di idonea strategia, ma l'accettarne una non idonea non mi sembra una strategia idonea. Questo fatto dimostra soltanto che, quand'anche ci fosse una proposta di una strategia idonea, in troppi non la riconoscerebbero.
Allora? Se le cose stanno così, è assai difficile che l'Italia si risollevi e che i suoi cittadini la smettano di fidarsi dei ciarlatani, che promettono un futuro, mentre per colpa soprattutto loro muore il presente. Fidarsene equivale a sognare a occhi aperti, con la certezza che al risveglio scopriremo che non è morto soltanto il presente, ma che è nato morto il futuro.
Si tratta di una situazione difficile, che potrà risolversi soltanto a condizione che tutti i cittadini siano disposti ad ammettere i loro errori. Soprattutto l'errore di non aver deciso la scelta dei loro rappresentanti politici con un'attenta riflessione e con la consapevolezza dei veri problemi da risolvere. Senza questa consapevolezza, infatti, la scelta non può non ricadere su chi elargisce la mancia più ricca. Per averne contezza basta riflettere sul perché in prossimità delle elezioni si fanno così numerose le mirabolanti promesse di un ponte sullo Stretto, di finanziamenti milionari, di posti di lavoro, di abolizione di Equitalia eccetera. Tutte solo e soltanto mance! E per essere più sicuri che i cittadini non si vergognino di accettarle, li fanno vivere ormai in un continuo stato precario e nella più totale ignoranza, che stanno cercando di alimentare nei giovani con la loro buona scuola, che buona non è.
Ci sarebbe il cosiddetto nuovo che avanza, il M5S, ma non mi sembra che la sua strategia sia adatta a risolvere i problemi dell'Italia. A meno che non si voglia accettare il suo anti-europeismo come una panacea per tutti i mali e la politica economica di una Kirchner come idonea a salvare l'Italia, dopo che s'è dimostrata nefasta per l'Argentina.
Allora non ci resta che prendere coscienza di che cos'è la democrazia e di che cosa fare per trarne i maggiori vantaggi.
Se democrazia significa “potere del popolo”, essa funzionerà soltanto se il popolo questo suo potere lo eserciterà e non vi rinunzierà in cambio di mance e di cieca fiducia in un capopopolo. Esercitarlo, però, costa quantomeno la fatica di partecipare alla vita pubblica e non guardare ai propri politici come a semidei, dai quali dipende persino il pranzo per sé e per i propri figli; costa la fatica di leggere e quella di ascoltare; costa la fatica di usare il cervello per giudicare se le parole sono o meno soltanto vane promesse; costa la fatica di controllare quotidianamente l'azione amministrativa e politica dei rappresentanti. Costa, infine, il coraggio di sapere correggersi se la precedente scelta è stata un errore, dichiarandolo subito e a viso scoperto a colui che ci ha indotto in errore.
Ecco, questa è la vera democrazia e solo essa potrà salvare il futuro dell'Italia. Tutto il resto altro non è che mistificazione, che copre quell'immondo mondo dell'attuale falsa democrazia.

sabato 24 settembre 2016

Forse in molti non sanno che Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas, è uno dei ricercatori più citati al mondo. Non lo sanno sicuramente Crocetta, Gucciardi e Lapunzina.
Forse ancora in molti non sanno che nel data base che contiene tutte le pubblicazioni relative alle ricerche (Pubimed) nel mondo, il primo posto è occupato dai ricercatori italiani in immunologia, in oncologia e in ematologia. Non lo sanno sicuramente Crocetta, Gucciardi e Lapunzina.
In un suo articolo su La Repubblica così Letizia Gabaglio: “In assenza di finanziamenti pubblici, il lavoro dei ricercatori è tutto nelle mani delle aziende. Che spesso decidono di puntare sull'Italia e sul suo potenziale di innovazioni in oncologia, ematologia, dermatologia, reumatologia perché i ricercatori sono tra i più bravi. Certamente lo fa la biotech americana Celgene, che investe sugli italiani più di quanto non faccia in altri paesi europei: il doppio che in Gran Bretagna, Francia o Germania. La ragione la spiega l'amministratore delegato Pasquale Frega: «Il nostro modo di fare innovazione si sposa bene con lo spirito di ricerca italiano. Lavoriamo molto sulle malattie rare o su quelle che non hanno ancora una risposta adeguata. È una sfida che gli italiani dimostrano di saper raccogliere al meglio. Anche se manca ancora una strategia precisa per attrarre sempre più aziende».
Appunto, manca ancora una strategia precisa per attrarre sempre più aziende; sempre meno sostegno ai giovani ricercatori, che, a causa delle pastoie burocratiche e dell'insipienza della classe politica, vanno sempre più spesso a lavorare all'Estero. Alla nostra burocrazia e alla nostra politica compete soltanto l'impegno alla creazione di precari e di parlarsi addosso. Scienza e coscienza, sapienza e cultura, neanche a parlarne. Soprattutto nel caso di Crocetta, Gucciardi e Lapunzina.
Una ulteriore e forse definitiva prova l'abbiamo avuta sulla questione del piano regionale siciliano, che riguarda il Giglio di Cefalù, uscito dalla decadenza di ospedale pubblico con la Fondazione San Raffaele-Giglio, durante la quale sono stati spesi sì tanti soldi, ma lo si è trasformato, se non un ospedale d'eccellenza, certamente in un ospedale, che all'eccellenza poteva aspirare.
Ancor più questa meta sembrava più vicina grazie alla nuova dirigenza, che ne ha cancellato i debiti pregressi e dopo due anni di sacrifici si avviava a una strategia di sviluppo. Sembrava cosa fatta, quando inopinatamente la Regione aveva minacciato di chiuderne proprio quei reparti, che avrebbero permesso all'ospedale di svilupparsi verso la via dell'eccellenza.
Una levata di scudi da parte di tutti gli interessati, ivi comprese le popolazioni dei Nebrodi e delle Madonie, che nell'ospedale di Cefalù hanno da anni un riferimento sanitario sicuro. I poveri Sindaci del Distretto sanitario, come sospinti dalla rabbia di questa popolazione – che in fondo rappresentava il loro elettorato – si sono svegliati e subito hanno cavalcato la protesta. Erano però come ancora addormentati, perché non hanno capito come motivare la loro protesta e si sono limitati, alcuni, a minacciare la restituzione della tessere del loro partito. Non capivano, i poveretti, che la difesa del Giglio non doveva basarsi su una simile inutile minaccia, ma su argomentazioni diverse, che avrebbero dovuto mostrare come da questo ospedale, così com'è, possono ottenersi grandi cose, come quelle descritte sopra e come quelle che ho indicato nel seguente intervento: http://www.qualecefalu.it/node/19915#.
Purtroppo, però, abbiamo una classe politica regionale e locale nemica della cultura, del progresso scientifico e, soprattutto, di quello sanitario. Politici dannosi persino alla salute dei loro elettori.
Così non accadeva neppure nel Basso Medioevo, quando si moriva ancora di peste! Perché accade? Perché un investimento pubblico di miliardi delle vecchie lire dovrebbe essere destinato al nulla, invece di trasformarsi in un faro di ricerca sanitaria e di salvezza per i malati? Perché questo basso profilo da parte della politica, che finora, dicendo e non dicendo, ha trattato questo vitale problema come se si trattasse dei precari della Forestale e di quelli impegnati nei Comuni? Perché ci si dimentica che in Italia e in Sicilia ci sono giovani ricercatori, che il mondo intero c'invidia e, quando può, ci ruba?

martedì 16 agosto 2016

Anche a me è accaduto, andando alla ricerca delle responsabilità degli errori dei politici in un sistema democratico, quale dovrebbe essere il nostro, di addebitarle agli elettori, perché sceglievano male i loro rappresentanti.
Oggi, invece, dopo riflessioni, che cercherò di descrivere di seguito, sono giunto alla conclusione che forse gli elettori non sono così responsabili, come credevo e come molti critici credono.
Intanto, occorre stabilire chi sceglie i candidati, fra i quali gli elettori devono operare la loro seconda scelta trasparente. Rispondere è indispensabile, per trovare le responsabilità del cattivo funzionamento del nostro sistema politico. È quindi necessario esaminare che cosa accade prima della della scelta elettorale. Questo perché, se la scelta elettorale dovrà compiersi non tra uomini capaci d'essere leader, ma fra rettili offerti da un sistema partitico o movimentista, che non opera con trasparenza, pur essendosi inventate le “primarie” o il voto web per compiere tale scelta.
Che cosa fare, allora? Inventarsi un nuovo partito o un nuovo movimento? Credo che sarebbe inutile. Questo partito avrebbe difficoltà a far familiarizzare l'opinione pubblica con i suoi programmi o a rendersi credibile con i mezzi d'informazione. Per di più i partiti politici hanno predisposto regole elettorali favorevoli ai propri candidati.
Occorre, però, intervenire prima dell'offerta delle candidature. Sicuramente la cosa è difficile, quasi impossibile, nel caso di elezioni nazionali e persino regionali, ma è possibile nel caso di elezioni comunali. In questo caso gli elettori non dovranno subire un regime predatorio come quello che da oltre un quarantennio governa l'Italia ed esso non potrà alimentarsi dell'appoggio elettorale degli uomini rappresentano i suoi partiti come satrapi locali. L'elezione di uomini al di fuori di tali partiti, infatti, toglierebbe forza a questi partiti e renderebbe impossibile la gestione delle clientele.
Ammetto che inizialmente queste amministrazioni locali indipendenti subiranno una lotta spietata della politica regionale e nazionale, magari con il sistema del diniego dei finanziamenti per le infrastrutture necessarie e persino con l'imposizione di tassazioni più elevate, ma a fronte della resistenza delle loro rappresentanze finiranno con il cedere. La gente che ha eletto i sindaci, infatti, sarà pronta a seguirne le scelte nel momento delle elezioni e non voterà certamente per uno dei suoi tiranni. S'invertirà finalmente l'andazzo attuale, che vede i cittadini assediati dalla propaganda, impauriti e trattati con disprezzo dei loro diritti. Disprezzo tanto più cinico, quanto più viene dal loro diretto rappresentante, il sindaco.
Non c'è dubbio che tale inversione di tendenza salverebbe Cefalù e, se il suo esempio fosse seguito da altri Comuni, salverebbe anche l'Italia. S'immagini il ruolo storico di Cefalù!
I Cefalutani saranno capaci alle prossime elezioni di compiere scelte così pacifiche, ma nel contempo così rivoluzionarie? Dal loro seno sapranno proporsi uomini nuovi, degni di mettersi a capo di una simile rivoluzione? Confesso che non ho una risposta, ma non dubito che questa è una delle ultime occasioni che ha Cefalù per liberarsi dei lacci clientelari, che hanno reso precaria la vita dei suoi cittadini e incerto il futuro dei loro figli. Nel prossimo maggio 2017 potranno dimostrare di essere cittadini, titolari di diritti inalienabili, e non vili sudditi.



venerdì 5 agosto 2016

Chi sono i Siciliani? Un giudizio di oltre quattro secoli fa.

Se leggete a pagina 961 di La corda pazza di Leonardo Sciascia, troverete la seguente citazione di Scipio di Castro: “I siciliani generalmente sono più astuti che prudenti, più acuti che sinceri, amano le novità, sono litigiosi, adulatori e per natura invidiosi; sottili critici delle azioni dei governanti, ritengono sia facile realizzare tutto quello che loro dicono farebbero se fossero al posto dei governanti. D'altra parte, sono obbedienti alla Giustizia, fedeli al Re e sempre pronti ad aiutarlo, affezionati ai forestieri e pieni di riguardi nello stabilirsi delle amicizie. La loro natura è fatta di due estremi: sono sommamente timidi e sommamente temerari. Timidi quando trattano i loro affari, poiché sono molto attaccati ai propri interessi e per portarli a buon fine si trasformano come tanti Protei [il personaggio mitologico capace di cambiare forma], si sottomettono a chiunque può agevolarli e diventano a tal punto servili che sembrano nati per servire. Ma sono di incredibile temerarietà quando maneggiano la cosa pubblica e allora agiscono in tutt'altro modo.
Prima di commentare il brano riportato da Sciascia, è opportuno conoscere meglio il suo autore e il tempo in cui visse. Scipio di Castro era nato a Policastro, vicino a Salerno, nel 1521 e morì nel 1583 a Roma. Fu senza dubbio un avventuriero e, sebbene avesse preso i voti di agostiniano, fu un eretico e un apostata, più volte inquisito dal Sant'Uffizio e condannato. Le sue amicizie gli risparmiarono, però, di scontare le pene più volte inflittegli e comunque gliele resero più sopportabili.
Fra le sue amicizie bisogna annoverare la più importante, quella di papa Gregorio XIII e di suo figlio Giacomo. Altre amicizie permisero a Scipio di partecipare alla politica europea di quel tempo, con l'essere consigliere ascoltato e stimato di ministri, plenipotenziari e di viceré.
In Sicilia visse per un decennio e qui vi fu amico del viceré marchese di Pescara, al quale si deve la porta di Cefalù, che porta il suo nome. Oggi quella porta non ha più le caratteristiche originali, avendo subito mutamenti, qualcuno parla di deturpamento, nel 1868, al tempo del delegato straordinario Antonino Morvillo.
Comunque sia, il legame con Cefalù e con la Sicilia di Scipio di Castro è provato da non pochi documenti, per cui si deve considerare il suo giudizio riportato da Sciascia come il giudizio di una persona informata dei fatti e buon conoscitore del carattere dei Siciliani. Se poi si aggiunge che egli, nonostante il giudizio negativo di cui fu investito dai suoi avversari, fu un uomo intelligente e scrittore di sensatissime lettere e di studi anche scientifici, il suo giudizio deve quantomeno farci riflettere.
Il punto è: dal secolo XVI a oggi il carattere dei Siciliani è cambiato? È quello dei Cefalutani? A me sembra che la riflessione di Scipio abbia ancora più valore di ieri. Lo dimostra ogni giorno il comportamento del popolo, che accetta come un destino obbligato persino il precariato, e quello dei politici, che da questo popolo vengono eletti e si comportano con “incredibile temerarietà”. Una temerarietà, che li spinge a decidere senza riflettere sulle conseguenze, tanto esse ricadranno sempre sul popolo. Come accade e ancor più accadrà a Cefalù.

domenica 31 luglio 2016

Libertà contro burostatalismo

È da quando il referendum inglese ha stabilito l'uscita della Gran Bretagna dalla UE che cerco quali sono state le vere cause di tale decisione.
Da sempre ho guardato all'Inghilterra non soltanto come la patria della democrazia liberale, ripresa della democrazia ateniese del V secolo A.C. e poi per lunghissimi secoli abbandonata, ma anche come la nazione che seppe trovare nel marasma della sua Gloriosa Rivoluzione la strada per affermare con maggiore forza il diritto, così diverso da quello delle nazioni continentali. Anche il nome dei due diritti ha nomi diversi: civil law nel Continente e common law in Inghilterra, come a sottolinearne anche nel nome la differenza. Il primo indica un diritto, dove civile sta a indicare un'astratta società; il secondo, invece, indica che esso dev'essere condiviso da tutti, dev'essere comune e deve rispondere alle esigenze degli uomini, prima fra tutte la libertà e l'autonomia.
Il common law nasce, più che dalle leggi scritte, dalle sentenze dei giudici, che studiano i casi particolari e concreti senza paraocchi ideologici e non su leggi positive, approvate dai politici e dai burocrati, come avviene nell'Europa Continentale.
Era un pretendere troppo riuscire a tenere legata la Gran Bretagna a un'Europa, che invece tiene legati i popoli in maniera coattiva, ignorando che cosa sia una libera associazione o la libertà dell'individuo; ignorando persino che cosa siano le autonomie locali.
Sono certo che in questo momento uomini come Einaudi o Jean Monet si agitano nella tomba nel vedere l'Europa sognata da loro nelle mani di figli degeneri, che non sono soltanto i politici del Terzo Millennio, ma anche i burocrati. Essi impongono dall'alto quello che ritengono l'unico ordine sociale possibile. Pianificano, seguendo il loro incontrastato criterio e tentando di confondere tale loro pianificazione con la libera circolazione dei beni e il libero mercato.
Questa pianificazione gestita a tavolino non può coniugarsi con lo spirito di libertà proprio del Paese che non ha una camera dei deputati, ma una camera dei Comuni. L'uscita della Gran Bretagna dalla UE è stata una conseguenza diretta dell'inaccettabile centralismo burocratico di questa Europa; quasi un riacquistare la propria sovranità. È come se fosse morto il nuovo ordine, che aveva tolto libertà agli inglesi in nome della globalità.
Il punto è: che cosa accadrà, quando la Gran Bretagna concluderà i negoziati per essere definitivamente fuori dall'Europa? Che cosa faranno gli altri Paesi dell'Unione?
Se questi Paesi avranno la forza di rinegoziare la loro permanenza, anche sotto la pressione dei loro cittadini, stanchi di questa oppressiva burocrazia europea, forse qualcosa di più liberale resterà di questa Europa, altrimenti di essa non resteranno che le rovine.






venerdì 29 luglio 2016

La decadenza culturale dell'Europa.

Gli attentati, che hanno colpito e che forse ancora colpiranno l'Europa, hanno fatto perdere la fiducia dei cittadini verso i loro governanti. Per di più ogni episodio terroristico li angoscia oltre ogni dire.
In questa situazione tutti a dire che bisogna fare qualcosa, ma dalla politica, che si ostina a dirsi amica dei cittadini e di essere la loro amministratrice e la loro rappresentante, non vengono né proposte strategiche né aiuto di vario genere, ma soltanto chiacchiere.
Cresce così ogni giorno quel sentire venato di angoscia e nutrito dall’impotenza che ormai si sente spirare un po’ dappertutto in Europa. Il sentimento della nostra decadenza, di una vera e propria crisi di civiltà. Nutrito potentemente dall’idea — o forse bisognerebbe dire dalla consapevolezza? — che una lunga fase felice della nostra storia si è chiusa per sempre e che ne è iniziata una di segno contrario: caratterizzata dalla dissoluzione dei precedenti equilibri mondiali favorevoli, dalla progressiva perdita da parte delle nostre società di una messe vastissima di opportunità preziose, dal subitaneo tramonto di convinzioni, di abitudini, di modelli di relazioni interpersonali più che degni e per l’innanzi radicatissimi.
Sempre più andiamo familiarizzandoci con l’idea di vivere un’epoca di sconfitta e di ripiegamento, di declino. Che non a caso è innanzi tutto un inquietante declino demografico: come se ci stesse venendo meno perfino la volontà biologica di avere un futuro. Qualcosa, insomma, che assomiglia, come ho spesso detto, a una vera e propria complessiva crisi di civiltà.
Dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell'URSS la storia non soltanto non si è fermata, come qualcuno voleva farci credere, ma ha camminato più velocemente, quasi impetuosamente. A chi ha la mia età, il mondo appare assai diverso da un tempo; più diverso e più insicuro.
Nel campo economico e sociale, poi, da almeno trent'anni la crescita è debole e i salari molto spesso non sono sufficienti persino a sfamare le famiglie dei lavoratori. Avanza la povertà con un ritmo straordinario e aumentano le diseguaglianze. La politica, di fronte a tutto ciò, si mostra incapace di capire e di proporre soluzioni. Il suo fallimento rende i cittadini sconvolti, al punto di convincersi che le colpe sono della finanza, del capitalismo, del liberalismo, non rendendosi conto che proprio finanza e capitalismo sono stati le vittime dell'incompetenza politica, che però ha preteso d'ingerirsi sempre più con un massiccio statalismo.
Anche il quadro ideale cui eravamo abituati, l’insieme dei valori e delle istituzioni deputati a incarnarli e preservarli, gli orizzonti culturali che ci erano consueti, appaiono sconvolti e in buona parte annichiliti. La pervasività dei media elettronici, con il conseguente declino della scrittura; la perdita di capacità formativa da parte dell’istruzione scolastica, non più custode come un tempo di alcun legame con il passato; infine la secolarizzazione, intrecciata a un sempre crescente individualismo frantumatore di ogni legame a cominciare da quello familiare: sono questi fattori che disegnano un orizzonte in cui una parte non piccola (forse maggioritaria) della popolazione dell’Occidente euro-americano fatica sempre di più a riconoscersi. Accade, tra l’altro, che una popolazione sempre più composta di anziani — quindi per forza di cose legata a costumi antichi — sia sospinta invece, inesorabilmente quanto paradossalmente, verso abitudini, valori, modelli di rapporti umani e stili di vita nuovi, nuovissimi (penso ad esempio a quanto sta accadendo nella sfera della vita sessuale) per essa inediti ed estranei, i quali richiedono un adattamento e un abbandono del proprio retaggio personale spesso penosi, non poche volte impossibili. Chi può dire il senso di frattura, di spaesamento, che tutto questo produce? Il malessere, che scava come un tarlo nello spirito pubblico, e magari è destinato a toccare livelli esplosivi quando vi si aggiunge con il fenomeno dell’immigrazione l’arrivo di genti sconosciute? È un senso di frattura rispetto al passato, di spaesamento, di non essere più padroni in casa propria, che confluisce e a propria volta alimenta l’impressione di perdita, di declino e di crisi di cui dicevo prima. Come se la storia, dopo avere per tanto tempo lavorato a nostro favore, lavorasse ormai contro di noi.
Nasce da tutto ciò la difficoltà psicologica di credere nel futuro o di progettarne la costruzione. Perché siamo ormai società vecchie e senza energie.
È in questo modo che si è creata in molti l’idea di un incombente destino di decadenza, di una crisi di civiltà. Un’idea alla quale ha dato un contributo decisivo — io credo, e lo dico sapendo di dire qualcosa che a certe orecchie suona blasfemo — il constatare, da parte della gente comune, dell’uomo della strada, come stessero progressivamente scomparendo dall’orizzonte del pensiero politico dell’Occidente e dalla sua azione concreta, ambiti ideali, dimensioni e modalità pratiche, che non solo ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato un successo così rilevante.
È stata per gran parte l’opera di élite superficialmente progressiste, di debolissima cultura storica e politica, succubi delle mode, le quali hanno così creato un vuoto culturale e sociale enorme. Quel vuoto che da tempo forze torbidamente eterogenee hanno facilità a cercare di riempire con le loro ricette il più delle volte improbabili, ma dalla presa emotiva potenzialmente sempre più forte.

martedì 26 luglio 2016

Credo che oggi a Cefalù sia indispensabile dichiarare non il caso di calamità naturale, ma quello di banalità naturale, almeno a sentire le frequenti dichiarazioni dei nostri Amministratori e, soprattutto, le loro azioni politico-amministrative.
Intanto, sembra che ormai essi abbiano abdicato alle loro funzioni istituzionali, per demandarle alla giustizia amministrativa o civile. Se, infatti, dovessimo contare i ricorsi presentati al TAR, al CGA, alla Corte dei Conti e in tutte le sedi scelte anche maldestramente, perché incompetenti o senza giurisdizione, l'elenco sarebbe lungo e noioso, ma persino doloroso per le sconfitte che in tanti casi hanno accompagnato i ricorsi fatti o subiti.
Le conseguenze non sono di poco conto. La funzione della politica è quella, ben diversa da quella dei tribunali, di dare spazio al compromesso nell'interesse della comunità dei cittadini. E il compromesso non potrà mai raggiungersi con il muro contro muro, per cui si finisce con il creare danni ai cittadini con la banale giustificazione che esso è la conseguenza dell'intenzione di far loro il bene, che non si è raggiunto per colpe di decisioni del passato.
Ancor più banale della giustificazione c'è l'interpretazione, che spesso viene data delle leggi e delle norme, in forza delle quali si ricorre ai tribunali. Su quanto quelle interpretazioni si siano dimostrate inconsistenti o errate, ne hanno dato prova diverse sentenze, per cui non torno a parlarne.
Questo per quanto riguarda il coinvolgimento dei tribunali. Altre banalità hanno riguardato e riguardano l'attività amministrativa in senso stretto. Questa Amministrazione, infatti, si attiene al principio enunciato da un esponente del PD, Fausto Raciti, “di deresponsabilizzazione della politica attraverso i tecnici.”. Questo principio supera ogni banalità immaginabile. In democrazia gli elettori vengono in questo modo defraudati del loro potere di controllo e di giudizio dell'operato di coloro che hanno eletto a rappresentarli. Infatti, se ogni responsabilità è dei tecnici, si presentano non pochi problemi. Innanzitutto, come togliere la propria fiducia a chi non si è mai data, visto che i tecnici sono stati nominati dai politici? Chi garantisce al cittadino che il politico, che li ha nominati, non usi la sua influenza per far fare loro cose che per scienza ritengono sbagliate? E se il tecnico dovesse opporsi, chi gli garantisce di poter godere della fiducia del politico, che lo ha scelto? Anche quando il tecnico è un burocrate, potrà mai sottrarsi alla volontà del politico? E, infine, la scelta fatta da un politico impreparato a capire la preparazione del tecnico – dal legale all'ingegnere – non potrebbe essere sbagliata?
Però, secondo la legge approvata pro domo sua dai politici, ogni responsabilità, anche penale, è dei tecnici e dei burocrati, di questi pigmei responsabili di un elefante, come qualcuno li ha definiti.
Di fronte all'elefante burocrazia i cittadini sono inermi, visto che coloro che hanno scelto per rappresentarli e per rappresentarne gli interessi si auto-deresponsabilizzano, creando ad hoc un capro espiatorio nei burocrati.
Tutto ciò non è originale, ma banale. Per conseguenza, anche l'attività amministrativa di Cefalù, attenendosi a quanto sviluppato finora, non ha nulla di originale rispetto a quella passata, che accusa delle peggiori nefandezze, ma è banalmente uguale a essa: incompetente e dannosa.

domenica 24 luglio 2016

Odissea siciliana

La scrittrice americana Francine Prose ha scritto nel suo splendido libro Odissea siciliana le seguenti due riflessioni, ispiratele da un suo viaggio-inchiesta in Sicilia: “L'intera storia d'Italia - e gran parte di quella Europea - sembra concentrarsi in questa terra singolare e affascinante” è la prima; l'altra è: “È facile essere felici in Sicilia, ma è un’operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale: bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana.”.
Non è difficile concordare sulla prima affermazione, non tanto perché ci inorgoglisce e stuzzica la nostra vanità, quanto piuttosto perché dalle tombe fenicie ai templi e ai teatri greci, dagli esempi di arte bizantina a quella normanna, è tutto un esempio di tale concentrazione di storia, che è non soltanto l'alba della storia italiana ed europea, ma anche di tutta la storia occidentale, senza la quale anche quella orientale, pur grande, non avrebbe avuto lo sviluppo che la rende oggi in grado di rivaleggiare con quella occidentale. Questa è la Sicilia! A dimenticarlo sono purtroppo i Siciliani stessi.
La seconda riflessione ci viene in aiuto per capire perché accade che i Siciliani soffrano di questa amnesia del loro orgoglioso passato. Essa, infatti, ci indica che noi siciliani viviamo il tempo a modo nostro. Viviamo senza fretta e consideriamo il tempo passato come già morto, quindi incapace di farci riflettere sulle esperienze del passato, per trarne insegnamento. Questo modo di vivere il passato ci rende più simili a bambini spensierati, invece che a uomini maturi.
Non pensiamo neppure a costruire un futuro, convinti che esso sarà come il destino vorrà e non come noi dovremmo e potremmo costruirlo. Per conseguenza viviamo lo stesso presente con disattenzione e improvvisando, convinti che esso non ci serve per creare il futuro.
Cefalù è una città della Sicilia e i suoi abitanti, orgogliosi della loro cefalutanità, sono pur sempre siciliani. Lo dimostra anche il loro modo di vivere il tempo. Non daranno mai, per esempio, un orario preciso per un appuntamento, ma diranno “ci si vede verso le..”, che potranno essere qualunque ora dopo quell'ora e forse mai; sono pronti a dimenticare non soltanto il lontano passato, quand'anche fosse glorioso, ma anche quello recente; sono così dimentichi di questo passato recente, da ridare fiducia a quei candidati, che per cinque anni hanno aspramente criticato.
Da questa maniera siciliana di vivere il tempo sono derivati tanti problemi, che infine sono sfociati nella triste situazione attuale della Sicilia e di Cefalù. Non essendo artefici del loro futuro, essi ormai da anni si affidano ai politici, che a ogni tornata elettorale ne promettono uno radioso, che però si riduce a essere soltanto il loro ricco e immeritato avvenire. Agli altri, invece, viene riservato un futuro di stenti. E più i cittadini vivono fra gli stenti, più sono clienti in mano ai politici. Politici, che si sono inventati il lavoro precario, che altro non è, se non un precario presente senza futuro. Questo è stato possibile soltanto perché i Siciliani hanno il loro strano modo di vivere il tempo; un modo di pensare soltanto all'oggi e a non preoccuparsi del domani. Non per nulla, in Sicilia regna incontrastato l'adagio: pensa a oggi, a domani pensa Dio.

giovedì 26 maggio 2016

Difesa della Casta

Per rottamare la democrazia e la libertà, ci voleva un partito “democratico” in mano a un rottamatore. Ieri, 25 maggio 2016, è cominciato in Aula l'esame del disegno di legge presentato dalla senatrice del PD Doris Lo Moro. Tale disegno di legge è già stato approvato in Commissione Giustizia al Senato e prevede un inasprimento delle pene per coloro, giornalisti e no, che dovessero diffamare i politici locali – sindaci, assessori e consiglieri.
Lascia interdetti che in Commissione i rappresentanti del M5S abbiano votato a favore, per dimenticare pochi giorni dopo come hanno votato!
Si rimane ancora più interdetti, se si pensa che il provvedimento a firma del Ministro NCD Enrico Costa, che prevede l'abolizione del carcere per i giornalisti, giace dimenticato in qualche cassetto delle scrivanie della “casta”.
Se la sua voce avesse ascolto nel suo stesso partito, potrebbe sospettarsi che ci sia lo zampino di Lapunzina.