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domenica 31 luglio 2016

Libertà contro burostatalismo

È da quando il referendum inglese ha stabilito l'uscita della Gran Bretagna dalla UE che cerco quali sono state le vere cause di tale decisione.
Da sempre ho guardato all'Inghilterra non soltanto come la patria della democrazia liberale, ripresa della democrazia ateniese del V secolo A.C. e poi per lunghissimi secoli abbandonata, ma anche come la nazione che seppe trovare nel marasma della sua Gloriosa Rivoluzione la strada per affermare con maggiore forza il diritto, così diverso da quello delle nazioni continentali. Anche il nome dei due diritti ha nomi diversi: civil law nel Continente e common law in Inghilterra, come a sottolinearne anche nel nome la differenza. Il primo indica un diritto, dove civile sta a indicare un'astratta società; il secondo, invece, indica che esso dev'essere condiviso da tutti, dev'essere comune e deve rispondere alle esigenze degli uomini, prima fra tutte la libertà e l'autonomia.
Il common law nasce, più che dalle leggi scritte, dalle sentenze dei giudici, che studiano i casi particolari e concreti senza paraocchi ideologici e non su leggi positive, approvate dai politici e dai burocrati, come avviene nell'Europa Continentale.
Era un pretendere troppo riuscire a tenere legata la Gran Bretagna a un'Europa, che invece tiene legati i popoli in maniera coattiva, ignorando che cosa sia una libera associazione o la libertà dell'individuo; ignorando persino che cosa siano le autonomie locali.
Sono certo che in questo momento uomini come Einaudi o Jean Monet si agitano nella tomba nel vedere l'Europa sognata da loro nelle mani di figli degeneri, che non sono soltanto i politici del Terzo Millennio, ma anche i burocrati. Essi impongono dall'alto quello che ritengono l'unico ordine sociale possibile. Pianificano, seguendo il loro incontrastato criterio e tentando di confondere tale loro pianificazione con la libera circolazione dei beni e il libero mercato.
Questa pianificazione gestita a tavolino non può coniugarsi con lo spirito di libertà proprio del Paese che non ha una camera dei deputati, ma una camera dei Comuni. L'uscita della Gran Bretagna dalla UE è stata una conseguenza diretta dell'inaccettabile centralismo burocratico di questa Europa; quasi un riacquistare la propria sovranità. È come se fosse morto il nuovo ordine, che aveva tolto libertà agli inglesi in nome della globalità.
Il punto è: che cosa accadrà, quando la Gran Bretagna concluderà i negoziati per essere definitivamente fuori dall'Europa? Che cosa faranno gli altri Paesi dell'Unione?
Se questi Paesi avranno la forza di rinegoziare la loro permanenza, anche sotto la pressione dei loro cittadini, stanchi di questa oppressiva burocrazia europea, forse qualcosa di più liberale resterà di questa Europa, altrimenti di essa non resteranno che le rovine.






venerdì 29 luglio 2016

La decadenza culturale dell'Europa.

Gli attentati, che hanno colpito e che forse ancora colpiranno l'Europa, hanno fatto perdere la fiducia dei cittadini verso i loro governanti. Per di più ogni episodio terroristico li angoscia oltre ogni dire.
In questa situazione tutti a dire che bisogna fare qualcosa, ma dalla politica, che si ostina a dirsi amica dei cittadini e di essere la loro amministratrice e la loro rappresentante, non vengono né proposte strategiche né aiuto di vario genere, ma soltanto chiacchiere.
Cresce così ogni giorno quel sentire venato di angoscia e nutrito dall’impotenza che ormai si sente spirare un po’ dappertutto in Europa. Il sentimento della nostra decadenza, di una vera e propria crisi di civiltà. Nutrito potentemente dall’idea — o forse bisognerebbe dire dalla consapevolezza? — che una lunga fase felice della nostra storia si è chiusa per sempre e che ne è iniziata una di segno contrario: caratterizzata dalla dissoluzione dei precedenti equilibri mondiali favorevoli, dalla progressiva perdita da parte delle nostre società di una messe vastissima di opportunità preziose, dal subitaneo tramonto di convinzioni, di abitudini, di modelli di relazioni interpersonali più che degni e per l’innanzi radicatissimi.
Sempre più andiamo familiarizzandoci con l’idea di vivere un’epoca di sconfitta e di ripiegamento, di declino. Che non a caso è innanzi tutto un inquietante declino demografico: come se ci stesse venendo meno perfino la volontà biologica di avere un futuro. Qualcosa, insomma, che assomiglia, come ho spesso detto, a una vera e propria complessiva crisi di civiltà.
Dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell'URSS la storia non soltanto non si è fermata, come qualcuno voleva farci credere, ma ha camminato più velocemente, quasi impetuosamente. A chi ha la mia età, il mondo appare assai diverso da un tempo; più diverso e più insicuro.
Nel campo economico e sociale, poi, da almeno trent'anni la crescita è debole e i salari molto spesso non sono sufficienti persino a sfamare le famiglie dei lavoratori. Avanza la povertà con un ritmo straordinario e aumentano le diseguaglianze. La politica, di fronte a tutto ciò, si mostra incapace di capire e di proporre soluzioni. Il suo fallimento rende i cittadini sconvolti, al punto di convincersi che le colpe sono della finanza, del capitalismo, del liberalismo, non rendendosi conto che proprio finanza e capitalismo sono stati le vittime dell'incompetenza politica, che però ha preteso d'ingerirsi sempre più con un massiccio statalismo.
Anche il quadro ideale cui eravamo abituati, l’insieme dei valori e delle istituzioni deputati a incarnarli e preservarli, gli orizzonti culturali che ci erano consueti, appaiono sconvolti e in buona parte annichiliti. La pervasività dei media elettronici, con il conseguente declino della scrittura; la perdita di capacità formativa da parte dell’istruzione scolastica, non più custode come un tempo di alcun legame con il passato; infine la secolarizzazione, intrecciata a un sempre crescente individualismo frantumatore di ogni legame a cominciare da quello familiare: sono questi fattori che disegnano un orizzonte in cui una parte non piccola (forse maggioritaria) della popolazione dell’Occidente euro-americano fatica sempre di più a riconoscersi. Accade, tra l’altro, che una popolazione sempre più composta di anziani — quindi per forza di cose legata a costumi antichi — sia sospinta invece, inesorabilmente quanto paradossalmente, verso abitudini, valori, modelli di rapporti umani e stili di vita nuovi, nuovissimi (penso ad esempio a quanto sta accadendo nella sfera della vita sessuale) per essa inediti ed estranei, i quali richiedono un adattamento e un abbandono del proprio retaggio personale spesso penosi, non poche volte impossibili. Chi può dire il senso di frattura, di spaesamento, che tutto questo produce? Il malessere, che scava come un tarlo nello spirito pubblico, e magari è destinato a toccare livelli esplosivi quando vi si aggiunge con il fenomeno dell’immigrazione l’arrivo di genti sconosciute? È un senso di frattura rispetto al passato, di spaesamento, di non essere più padroni in casa propria, che confluisce e a propria volta alimenta l’impressione di perdita, di declino e di crisi di cui dicevo prima. Come se la storia, dopo avere per tanto tempo lavorato a nostro favore, lavorasse ormai contro di noi.
Nasce da tutto ciò la difficoltà psicologica di credere nel futuro o di progettarne la costruzione. Perché siamo ormai società vecchie e senza energie.
È in questo modo che si è creata in molti l’idea di un incombente destino di decadenza, di una crisi di civiltà. Un’idea alla quale ha dato un contributo decisivo — io credo, e lo dico sapendo di dire qualcosa che a certe orecchie suona blasfemo — il constatare, da parte della gente comune, dell’uomo della strada, come stessero progressivamente scomparendo dall’orizzonte del pensiero politico dell’Occidente e dalla sua azione concreta, ambiti ideali, dimensioni e modalità pratiche, che non solo ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ma ne avevano altresì assicurato un successo così rilevante.
È stata per gran parte l’opera di élite superficialmente progressiste, di debolissima cultura storica e politica, succubi delle mode, le quali hanno così creato un vuoto culturale e sociale enorme. Quel vuoto che da tempo forze torbidamente eterogenee hanno facilità a cercare di riempire con le loro ricette il più delle volte improbabili, ma dalla presa emotiva potenzialmente sempre più forte.

martedì 26 luglio 2016

Credo che oggi a Cefalù sia indispensabile dichiarare non il caso di calamità naturale, ma quello di banalità naturale, almeno a sentire le frequenti dichiarazioni dei nostri Amministratori e, soprattutto, le loro azioni politico-amministrative.
Intanto, sembra che ormai essi abbiano abdicato alle loro funzioni istituzionali, per demandarle alla giustizia amministrativa o civile. Se, infatti, dovessimo contare i ricorsi presentati al TAR, al CGA, alla Corte dei Conti e in tutte le sedi scelte anche maldestramente, perché incompetenti o senza giurisdizione, l'elenco sarebbe lungo e noioso, ma persino doloroso per le sconfitte che in tanti casi hanno accompagnato i ricorsi fatti o subiti.
Le conseguenze non sono di poco conto. La funzione della politica è quella, ben diversa da quella dei tribunali, di dare spazio al compromesso nell'interesse della comunità dei cittadini. E il compromesso non potrà mai raggiungersi con il muro contro muro, per cui si finisce con il creare danni ai cittadini con la banale giustificazione che esso è la conseguenza dell'intenzione di far loro il bene, che non si è raggiunto per colpe di decisioni del passato.
Ancor più banale della giustificazione c'è l'interpretazione, che spesso viene data delle leggi e delle norme, in forza delle quali si ricorre ai tribunali. Su quanto quelle interpretazioni si siano dimostrate inconsistenti o errate, ne hanno dato prova diverse sentenze, per cui non torno a parlarne.
Questo per quanto riguarda il coinvolgimento dei tribunali. Altre banalità hanno riguardato e riguardano l'attività amministrativa in senso stretto. Questa Amministrazione, infatti, si attiene al principio enunciato da un esponente del PD, Fausto Raciti, “di deresponsabilizzazione della politica attraverso i tecnici.”. Questo principio supera ogni banalità immaginabile. In democrazia gli elettori vengono in questo modo defraudati del loro potere di controllo e di giudizio dell'operato di coloro che hanno eletto a rappresentarli. Infatti, se ogni responsabilità è dei tecnici, si presentano non pochi problemi. Innanzitutto, come togliere la propria fiducia a chi non si è mai data, visto che i tecnici sono stati nominati dai politici? Chi garantisce al cittadino che il politico, che li ha nominati, non usi la sua influenza per far fare loro cose che per scienza ritengono sbagliate? E se il tecnico dovesse opporsi, chi gli garantisce di poter godere della fiducia del politico, che lo ha scelto? Anche quando il tecnico è un burocrate, potrà mai sottrarsi alla volontà del politico? E, infine, la scelta fatta da un politico impreparato a capire la preparazione del tecnico – dal legale all'ingegnere – non potrebbe essere sbagliata?
Però, secondo la legge approvata pro domo sua dai politici, ogni responsabilità, anche penale, è dei tecnici e dei burocrati, di questi pigmei responsabili di un elefante, come qualcuno li ha definiti.
Di fronte all'elefante burocrazia i cittadini sono inermi, visto che coloro che hanno scelto per rappresentarli e per rappresentarne gli interessi si auto-deresponsabilizzano, creando ad hoc un capro espiatorio nei burocrati.
Tutto ciò non è originale, ma banale. Per conseguenza, anche l'attività amministrativa di Cefalù, attenendosi a quanto sviluppato finora, non ha nulla di originale rispetto a quella passata, che accusa delle peggiori nefandezze, ma è banalmente uguale a essa: incompetente e dannosa.

domenica 24 luglio 2016

Odissea siciliana

La scrittrice americana Francine Prose ha scritto nel suo splendido libro Odissea siciliana le seguenti due riflessioni, ispiratele da un suo viaggio-inchiesta in Sicilia: “L'intera storia d'Italia - e gran parte di quella Europea - sembra concentrarsi in questa terra singolare e affascinante” è la prima; l'altra è: “È facile essere felici in Sicilia, ma è un’operazione che richiede un adattamento biologico oltre che culturale: bisogna imparare a vivere il tempo alla maniera siciliana.”.
Non è difficile concordare sulla prima affermazione, non tanto perché ci inorgoglisce e stuzzica la nostra vanità, quanto piuttosto perché dalle tombe fenicie ai templi e ai teatri greci, dagli esempi di arte bizantina a quella normanna, è tutto un esempio di tale concentrazione di storia, che è non soltanto l'alba della storia italiana ed europea, ma anche di tutta la storia occidentale, senza la quale anche quella orientale, pur grande, non avrebbe avuto lo sviluppo che la rende oggi in grado di rivaleggiare con quella occidentale. Questa è la Sicilia! A dimenticarlo sono purtroppo i Siciliani stessi.
La seconda riflessione ci viene in aiuto per capire perché accade che i Siciliani soffrano di questa amnesia del loro orgoglioso passato. Essa, infatti, ci indica che noi siciliani viviamo il tempo a modo nostro. Viviamo senza fretta e consideriamo il tempo passato come già morto, quindi incapace di farci riflettere sulle esperienze del passato, per trarne insegnamento. Questo modo di vivere il passato ci rende più simili a bambini spensierati, invece che a uomini maturi.
Non pensiamo neppure a costruire un futuro, convinti che esso sarà come il destino vorrà e non come noi dovremmo e potremmo costruirlo. Per conseguenza viviamo lo stesso presente con disattenzione e improvvisando, convinti che esso non ci serve per creare il futuro.
Cefalù è una città della Sicilia e i suoi abitanti, orgogliosi della loro cefalutanità, sono pur sempre siciliani. Lo dimostra anche il loro modo di vivere il tempo. Non daranno mai, per esempio, un orario preciso per un appuntamento, ma diranno “ci si vede verso le..”, che potranno essere qualunque ora dopo quell'ora e forse mai; sono pronti a dimenticare non soltanto il lontano passato, quand'anche fosse glorioso, ma anche quello recente; sono così dimentichi di questo passato recente, da ridare fiducia a quei candidati, che per cinque anni hanno aspramente criticato.
Da questa maniera siciliana di vivere il tempo sono derivati tanti problemi, che infine sono sfociati nella triste situazione attuale della Sicilia e di Cefalù. Non essendo artefici del loro futuro, essi ormai da anni si affidano ai politici, che a ogni tornata elettorale ne promettono uno radioso, che però si riduce a essere soltanto il loro ricco e immeritato avvenire. Agli altri, invece, viene riservato un futuro di stenti. E più i cittadini vivono fra gli stenti, più sono clienti in mano ai politici. Politici, che si sono inventati il lavoro precario, che altro non è, se non un precario presente senza futuro. Questo è stato possibile soltanto perché i Siciliani hanno il loro strano modo di vivere il tempo; un modo di pensare soltanto all'oggi e a non preoccuparsi del domani. Non per nulla, in Sicilia regna incontrastato l'adagio: pensa a oggi, a domani pensa Dio.