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domenica 3 agosto 2014

Politica ed economia: filosofia la prima, scienza la seconda

Thomas Jefferson si oppose alla prima banca centrale americana, voluta da Hamilton. Nasceva così il primo capitalismo clientelare. Hamilton, a differenza di Jefferson, ignorava le idee economiche del libero mercato. Era, insomma, completamente all'oscuro del pensiero di Adam Smith o di Ricardo.
Questa ignoranza gli permise di caldeggiare la causa del grande debito pubblico, che giunse a definire “una benedizione pubblica”! La definì così, non perché pensava che l'aumento del debito pubblico doveva servire a finanziare progetti di opere pubbliche, ma perché pensava, con un ragionamento contorto e diabolico, che vendendo obbligazioni alle persone più facoltose, le avrebbe legate a sostenerlo in grandiosi piani di tassazione e di sostegno delle banche d'investimento, che avevano immesso sul mercato le obbligazioni dello Stato. Ebbe ragione e ancora oggi ha ragione. Proprio le banche sono oggi sostenitrici di un grande governo e di tasse più pesanti. Se poi c'è una più grande banca centrale accentratrice, come la BCE, allora il disegno diabolico di Hamilton diventa più facile da attuare.
Al suo disegno si opposero Jefferson e Madison, ma inutilmente: nel 1811 nacque la FED, la grande banca americana, che nei suoi primi cinque anni di vita causò un'inflazione del 72%. Nonostante questo fallimento e i tanti ripetutisi anche recentemente e fino ai giorni nostri, ancora oggi in America e in Europa i governi si ostinano a seguire la stessa strategia dell'economista ignorante di economia Hamilton.
I danni causati da questa politica sono ancora più gravi: essa genera non soltanto instabilità economica, ma anche corruzione. E noi, in Italia, conosciamo bene la corruzione e le sue conseguenze! Non per nulla Summer scrisse che le idee di Hamilton per il protezionismo, il welfare corporativo e il sistema bancario centrale erano “i mezzi con cui il corrotto sistema di governo britannico (quello di allora ndr) poteva essere introdotto negli Stati Uniti”.
Sumner scrisse <<che la reputazione di Hamilton di grande esperto di economia e finanza è stata
enormemente esagerata; aggiungendo, inoltre, che il pensiero economico di Hamilton era
caratterizzato da “confusione e contraddizioni” e lo stesso era “offuscato dalle nebbie del
mercantilismo”. Sfortunatamente per noi tutte le cattive idee di Hamilton“fornirono un arsenale ben accolto dai politici” che gli succedettero.
Il mercantilismo di Hamilton è essenzialmente il sistema economico e politico sotto il quale gli
americani hanno vissuto per diverse generazioni fino ad oggi: un presidente – come un re – che
governa per mezzo di “ordini esecutivi” ed ignora qualsiasi vincolo costituzionale ai suoi poteri;
dei governi statali più simili a marionette nelle mani del governo centrale; un welfare
corporativo fuori controllo, specialmente alla luce del più recente oltraggio, il plutocrate
progetto di legge per il salvataggio di Wall Street; un debito nazionale di 10 mila miliardi di
dollari (70 miliardi di dollari, se si considerano le passività del governo non finanziate); un
perpetuo ciclo di boom-and-bust causato dagli pseudo maghi di Oz pianificatori centrali della
Fed; una costante aggressione militare in giro per il mondo che sembra solo favorire appaltatori
della difesa ed altri beneficiari dell’apparato militare; e più di metà della popolazione comprata
con sussidi di ogni genere immaginabile per supportare la crescita senza fine dello Stato. Questa
è la maledizione di Hamilton scagliata sugli Stati Uniti, una maledizione che deve essere
esorcizzata se si vuole avere una qualsivoglia speranza di resuscitare la prosperità e la libertà
americane.>>
Una maledizione che vorremmo che possa essere evitata all'Europa, ma soprattutto all'Italia, che di questa politica è vittima. Di questa politica, che ha nomi diversi: 5 stelle, Forza Italia, PD e via così, ma che si riduce soltanto a un pessimo esempio d'ignoranza o dell'arroganza umana, che vuole considerare l'economia, che è una scienza con proprie leggi, come uno strumento della politica, che può permettersi di cambiare tali leggi, come se si potessero cambiare le leggi dell'equilibrio dei pianeti. Si pensi, per esempio, all'affermazione negli anni '70 dei sindacati, che imponevano ai governi e alla politica di considerare il salario una “variabile indipendente” del bilancio!
È tempo che la si smetta di considerare l'economia asservita alla politica, perché da questo illogico presupposto derivano soltanto crisi e povertà, per non dire perdita di libertà. La politica torni a fare quel ch'è giusto fare: garantire leggi uguali per tutti e libertà agli individui, che non devono fidare nel welfare state, perché esso è – e non poteva essere altro – soltanto un'oligarchia di burocrati, che distribuiscono quanto tolto ai cittadini secondo formule della loro immaginazione e degli interessi propri e di quei politici, che li tengono in piedi. Se riflettiamo, è innegabile che l'attuale tassazione è una vera e propria confisca di quanto prodotto dai cittadini. La corruzione finanziaria di certi politici è quasi niente di fronte alla corruzione delle menti e delle coscienze dei cittadini.
Tempo fa, allo scoppio della crisi, ebbi a dire ad alcuni amici che essa sarebbe durata almeno quindici anni, perché le scelte politiche erano sbagliate e non tenevano conto delle ovvie regole dell'economia. Mi dissero che ero esagerato, ma non credo che oggi, quasi allo scadere dei quindici anni e ancora in crisi, siano disposti a definirmi ancora esagerato.




giovedì 31 luglio 2014

Un sindaco da deporre (come troppi parlamentari)

Se oggi l'Inghilterra è un esempio di democrazia partecipata e liberale, dove l'individuo è libero e rispettato, ciò lo si deve ai lunghi secoli in cui il suo popolo ha combattuto contro ogni autorità, quando questa privava un uomo, anche un solo uomo, della libertà. Non per nulla Lord Acton affermò che “ la coscienza ha il diritto di giudicare l’autorità”.
Anche l'Italia ha avuto i suoi ghibellini nemici d'ogni autorità. Il miglior autore certamente fu Marsilio da Padova. “Le leggi – egli diceva – derivano la loro autorità dal popolo e non sono valide senza il suo consenso. Dal momento che l’intero è più grande delle sue parti, sarebbe sbagliato che una sola parte legiferasse in luogo dell’intero; e dal momento che gli uomini sono eguali, sarebbe sbagliato che chicchessia venisse vincolato da leggi prodotte da un altro. Ma quando tutti gli uomini obbediscono a leggi alle quali tutti gli uomini hanno dato il loro assenso, essi in realtà si governano da soli. Il monarca, che viene istituito dal legislativo per eseguire la sua volontà, deve essere armato di una forza sufficiente a costringere gli individui, ma non a dominare sulla maggioranza del popolo. Egli è responsabile nei confronti del popolo e sottoposto alla legge; il popolo che lo nomina e gli assegna i suoi doveri deve controllare che egli obbedisca alla costituzione e deve deporlo se egli la infrange. I diritti dei cittadini non dipendono dalla fede che essi professano e nessuno può essere punito a causa della propria religione”.
Si tratta di una concezione politica così moderna, che si fa fatica a credere che essa è dovuta a un uomo nato nel 1275 (?) e morto nel 1342. Un uomo nato e vissuto in pieno Medioevo, quando simili affermazioni erano inaccettabili, essendo al culmine della sua potenza la Chiesa, che riteneva se stessa unica interprete della verità rivelata e il potere laico a essa subordinato. Non per nulla il povero Marsilio fu detto figlio del demonio. Così come tale fu definito Federico II, morto proprio nello stesso anno in cui nasceva Marsilio. Una concomitanza che ci fa considerare Marsilio come il continuatore sul piano filosofico del pensiero politico del Re di Sicilia.
Già tutto ciò meriterebbe un libro e gli approfondimenti necessari a farci capire quanta fatica è costata agli uomini la conquista “del diritto a giudicare l'autorità”, come affermava Acton. Ma io non sono uno storico e mi accontento di servirmi del pensiero di Acton e di Marsilio, per dimostrare quanto siano assenti le loro convinzioni nell'Italia d'oggi e a Cefalù in particolare.
Che cos'è accaduto nel maggio 2012 a Cefalù? I suoi cittadini hanno nominato Rosario Lapunzina sindaco e ora dovrebbero controllare che egli obbedisca alla costituzione e che non domina la maggioranza del popolo, come invece non è, per cui essi dovrebbero deporlo. Siamo tornati indietro di circa ottocento anni; siamo tornati in pieno Medioevo. Eppure questa Città reagisce con il peggiore degli immobilismi: tace e si dispera, accettando tutto come se fosse inevitabile e quasi naturale.
Siamo di fronte a un'impotenza ormai invincibile.



lunedì 28 luglio 2014

Cefalù: società democrtica o società tribale?


Il linguaggio, dopo che gli uomini ne ebbero uno, fu usato dapprima per comunicare, ma in seguito ci se ne servì anche per nascondere il proprio pensiero. Soprattutto questo secondo uso piacque tanto ai politici, che se ne servivano, e purtroppo se ne servono, per “conquistare” consenso. E questa abitudine è vecchia tanto quanto la democrazia: si pensi ai sofisti, “artisti della parola”, e ai primi passi della democrazia ad Atene nel V secolo avanti Cristo.
Con il tempo, ma dopo tanto tempo, quando la democrazia rinacque, prima in Inghilterra e dopo la Rivoluzione francese in Europa, si cercò di porre rimedio a quest'uso distorto del linguaggio e lo si trovò nel dibattito, conseguenza diretta delle libertà di pensiero e di espressione.
L'intervento di ieri a Radio Cammarata del Sindaco Lapunzina, tenuto senza dibattito, come già nell'antica Grecia preferivano i demagoghi e come ancora è preteso da coloro che amano nascondere il proprio pensiero, è un'involuzione millenaria della democrazia. A questa involuzione ci ha portato la politica di Lapunzina!
Persa la sua maggioranza in Consiglio, egli non è più il controllato che controlla il proprio controllore. Non ci sarebbe nulla di male in tutto ciò, se egli fosse disposto ad accettare il “dibattito” e quindi a non essere l'unico decisore delle scelte per il buon andamento della Città. Questo “dibattito” egli ha mostrato più volte di non gradirlo o lo ha concesso, obtorto collo, quando sapeva che eventuali votazioni gli garantivano la vittoria. Oggi che non ha più questa garanzia, si appella ancora al popolo, nella speranza che, in assenza di contraddittorio, la sua opinione diventi verità assoluta.
Non tralascia, per essere più convincente, di richiamarsi a dissesti evitati, dimenticando di precisare che essi non sono stati evitati, ma soltanto sospesi o rimandati, e in nome di questi presunti successi accusa d'irresponsabilità quella parte del Consiglio, che gli si oppone. Finge di non capire che non è a lui che si oppongono, ma alle scelte irresponsabili, che hanno ridotto Cefalù e i suoi cittadini a uno stato di arretratezza, che forse ha origini nelle amministrazioni precedenti, ma che oggi, dopo due anni di sua amministrazione, ha raggiunto l'acme.
Conoscere le cause del bene non dà agli uomini maggiore felicità, ma conoscere le cause del male dà invece la possibilità di evitarlo. E siccome per conoscerlo bene è necessario il contributo di tutti, ecco spiegata la necessità che di esso parlino tutti, persino coloro che lo negano, affinché i cittadini possano agire, per evitarlo. Ecco spiegata la necessità della polemica, della critica e del contraddittorio: tutte cose assenti nella trasmissione di ieri.
In un simile contesto hanno perso ogni importanza gli annunci di un futuro paradisiaco e dell'intervento è rimasto soltanto il sapore amaro di una retorica senza logica, con tanta mistificazione e in alcuni tratti condita di arroganza.

martedì 24 giugno 2014

Una pestilenza e un terremoto a Cefalù

Nell'anno di grazia di Nostro Signore 20.. una terribile pestilenza lasciò senza popolazione la città di Cefalù, che fino ad allora aveva goduto della protezione del Santissimo Salvatore.
Alla pestilenza si aggiunse poi una lunga sequela di scosse sismiche, che durarono parecchi giorni e che lasciarono, infine, un paesaggio totalmente cambiato. Tanto cambiato, che nessuno vi avrebbe riconosciuto Cefalù.
Di tutti gli abitanti ne era rimasto soltanto uno, che trascorreva il suo tempo seduto su uno scoglio, apparso improvvisamente durante il terremoto. Stranamente egli né mangiava né beveva, ma trascorreva il suo tempo con lo sguardo posato sulle rovine di quello che fu il paese tanto amato.
Dopo mesi, qualcuno osò avvicinarsi al luogo così provato e dopo lungo peregrinare, forse nella speranza di trovare qualche resto dell'antico insediamento, vide l'uomo sullo scoglio e gli si avvicinò, con la speranza di ottenerne spiegazioni su quanto era avvenuto.
Quando gli fu vicino, l'uomo solitario mostrò il suo volto rugoso, arso dal sole e dalla salsedine, e il suo sguardo profondo. Il visitatore non gli rivolse subito parola, ma se ne stette a lungo a guardarlo, come se volesse conoscerlo fin nella sua più profonda intimità.
Lo guardava negli occhi, ma più li fissava, più profonda diventava quell'intimità. Era come se guardasse in un profondissimo pozzo senza fondo. Per un attimo gli sembrò di avere le vertigini e fu costretto a staccare lo sguardo da quegli occhi. Fu a quel punto che udì la voce del solitario:
Lo so, sei venuto qui alla ricerca di un qualche rudere, che possa farti risalire al tempo passato, ma la tua ricerca sarà inutile. Perché ci siano i ruderi di un passato, prima dovevano esserci i templi. Templi, però, non ce n'erano più. E non soltanto i templi costruiti da mano umana, ma anche quelli dono divino. Per decenni gli uomini furono presi da così tanto furore, che passarono i loro giorni nella ricerca di distruggere ogni cosa per la quale era degno vivere. Distrussero promontori e arenili, panorami e monumenti. Distrussero in nome di un malinteso diritto al lavoro e quando la loro furia distruttiva si mostrava non conforme la consideravano almeno compatibile. Continuarono così, finché non rimase nulla né a testimonianza del passato né del favore divino. E così, quando di questo non rimase quasi nulla, lo stesso Dio volle distruggere tutto, insieme all'uomo che se n'era dimostrato indegno.”
E tu, come mai ti sei salvato?” disse il visitatore.
Io sono rimasto per testimoniare l'accaduto. Soprattutto per raccontare a te e ad altri che me lo chiederanno, perché tutto intorno c'è il deserto, che è stato costruito dall'uomo per ignoranza e per arroganza. Sono rimasto per volontà dell'Onnipotente, che vuol fare conoscere agli altri uomini che ai suoi doni si deve il massimo rispetto, per riconoscere il quale Egli ci ha dato la ragione. La ragione che, chi accetta di essere ignorante, calpesta bestemmiando. Se poi quest'uomo è anche arrogante, allora la sua bestemmia è ancora più grave. Ecco, il deserto che vedi è ciò che è rimasto dopo che tutto e tutti sono sprofondati all'Inferno.”
All'Inferno?”
Sì, all'Inferno!” continuò il sopravvissuto “E si è dovuto faticare non poco, perché Satana accettasse le anime di alcuni imprenditori e di alcuni burocrati. Temeva che la loro presenza avrebbe potuto creare disordine. Alla fine, dopo insistenze, accettò, ma fu categorico nel rifiutare i politici. Costoro finirono in un buco nero e non potranno mai ritornare.”
Il sole era quasi scomparso all'orizzonte e la notte si avvicinava. L'immensa distesa di sabbia, che occupava il luogo dove sorgeva Cefalù, perdeva sempre più il suo colore ambrato. Gli animali notturni cominciavano a far sentire i loro versi e i cinghiali riprendevano le loro razzie.
Quando il buio fu più fitto, il visitatore non vide più il sopravvissuto: era andato via senza che se ne accorgesse. Solo e al buio ebbe paura e si diede alla fuga. Voleva allontanarsi al più presto da quel luogo di morte, che persino Dio aveva abbandonato. Voleva allontanarsene e dimenticare di esservi andato; dimenticare persino che quella landa desolata era stata un giorno uno dei più bei paesaggi al mondo.

martedì 27 maggio 2014

Un sindaco nemico della libertà



Come sicuramente potranno confermare coloro che “hanno titoli certificati e verificati”, quando nell'antica Roma un generale vincitore attraversava la città in trionfo, un uomo stava alle sue spalle per sussurrargli: “ricordati che sei un uomo”.
Se Renzi fosse un generale romano, oggi gli spetterebbe il trionfo, con la differenza che l'uomo alle sue spalle gli sussurrerebbe: “ricordati che sei in Italia”. E l'essere in Italia lo costringe a trattare non con i militi di una legione o con i senatori della Repubblica Romana, ma con le ramificazioni locali del suo esercito (il PD), che certamente sono meno affidabili.
Il PD siciliano è una di queste ramificazioni e quello cefalutano è una sua sub-ramificazione. Esse seguono quelle che potremmo definire le strategie delle visioni oniriche, che sono realtà soltanto durante il sonno della ragione e dell'intelletto, ma che al levar del sole scompaiono persino dalla nostra memoria, come scompaiono – se non sono scritti nella loro immediatezza a futura memoria - non appena si avverano.
Se Renzi dovesse astenersi dal rottamare i tanti segretari e i sindaci, espressioni di queste ramificazioni locali, il suo disegno di una nuova politica sarebbe destinato a restare solamente uno sterile esercizio dialettico-politico, come i tanti ai quali siamo abituati a Cefalù e in Sicilia.
Io non so se la lettura di Tocqueville ha fatto parte della sua cultura politica, ma ritengo che egli non possa non richiamarsi alla sua La democrazia in America, specialmente laddove egli afferma che nel comune risiede la forza dei popoli liberi. Intendendo con ciò affermare che in assenza delle libertà locali e della loro autonomia, non possono esistere cittadini, ma soltanto sudditi. Già questa considerazione, da sola, dimostra quanto sia importante colui che viene eletto a capo della comunità locale – il sindaco, nel nostro caso. Egli non dev'essere l'esecutore di farraginose leggine e neppure il referente di politici nazionali, ma il garante dell'autonomia e della libertà dei cittadini che l'hanno eletto. Egli non dovrà lasciare impoverire questa sua comunità dell'acqua potabile, per correre dietro alle scelte demenziali di una Regione creatrice di carrozzoni; non dev'essere passivo di fronte al furto del suo litorale, non soltanto perché così stabiliscono in alto, ma perché non è stato capace di fornire il Comune degli strumenti previsti dalla legge; non deve consentire la scomparsa di uffici statali, che sono garanzia di amministrazione della giustizia. Se lo consente, infatti, egli ha fatto dei cittadini, che l'hanno eletto, soltanto dei sudditi senza libertà effettiva. Perché meravigliarsi se nelle ultime elezioni in oltre 8.000 si sono astenuti dal votare? Sapevano come la loro partecipazione al voto non avrebbe comportato il loro diritto di sapere, di controllare ed eventualmente di punire. Lo sapevano per esperienza acquisita in questi due anni di amministrazione, in cui ogni cosa è stata decisa prima e soltanto dopo, a cose fatte, è stata portata a conoscenza dell'opinione pubblica. Anche quando la decisione riguardava un fatto strettamente locale, come nel caso del traffico urbano.
Siccome l'amministrazione locale non ha soltanto la funzione di esercitare un'autonomia, ma quella più importante di educare gli uomini all'esercizio della libertà, trasformandoli da sudditi in cittadini, appare chiaro come sia importante la funzione dell'ente locale per favorire la creazione di una nazione di uomini liberi. Una nazione come quella che Renzi ha promesso di creare con le sue riforme, che resterebbero soltanto vuoto esercizio politico, se non provvedesse contemporaneamente ad allontanare – a rottamare, com'egli ama dire – il politicume locale e conservatore (nel significato semantico negativo).
Il mio commento, per essere più chiaro, dovrebbe dilungarsi ancora di più, ma finirei con il venir meno al mio impegno della brevità. D'altronde, come dicevano i Latini, intelligenti pauca.

venerdì 25 aprile 2014

Il Conte di Montecristo in Municipio

Forse non tutti sanno che il valore di un uomo si misura, secondo una vulgata corrente, dal successo elettorale che ottiene, se si dà alla politica, o dalla ricchezza che riesce a conquistare, se si dà agli affari.
La cosa potrebbe non farci meraviglia. Ricordo di aver letto da ragazzo nel Conte di Montecristo la risposta che uno dei personaggi diede a chi gli chiedeva come mai quell'uomo era conte: “in un'epoca in cui il denaro è re, tutti possono essere nobili”.
Oggi, però, l'uno e l'altro, il politico o l'uomo d'affari, non si accontentano più di un titolo nobiliare, ma vogliono onori più tangibili e più prosaici. Non soltanto finanziariamente – il che sarebbe un danno poco grave per i cittadini – ma vogliono anche l'onore dell'infallibilità.
E così si chiudono nelle “segrete stanze”, dove discutono non dei problemi veri della società, ma dell'eco che giunge alle loro orecchie. In questo modo i problemi sono soltanto un'occasione per esercitarsi nell'arte dell'inganno, servendosi dello strumento della parola. Parole che vengono fuori come risonanza dell'eco, per cui sono prive di qualsivoglia riferimento concreto.
Sono soltanto promesse, che vorrebbero tacitare l'eco, ma non la voce reclamante soluzioni. Esse servono solamente a negare ogni ragion d'essere a ogni pensiero dissonante, che critica e consiglia inutilmente.
Ogni cittadino dovrebbe aver la pazienza di riascoltare attentamente i dibattiti consiliari, soprattutto nelle parti riguardanti la cosiddetta maggioranza, per farsi un'idea di quel che dico. E se non bastasse, potrebbe rileggersi i comunicati del Sindaco oppure potrebbe richiamare alla memoria le innumerevoli manifestazioni improvvisate, con nessun'altra spinta concettuale, se non quella di apparire.
Il cittadino attento potrebbe pure passare in rassegna non soltanto gli interventi privati in danno del paesaggio e delle antiche architetture tradizionali, ma persino quelli dell'Amministrazione pubblica, che sembrano troppo spesso dettate da incompetenza. Degli uni e degli altri ne abbiamo parlato più volte e, con buona pace degli infallibili, ne parleremo sempre, quando sarà necessario. Lo dichiariamo a chiare lettere, perché essi sappiano che non potranno continuare impunemente a decidere nel segreto del futuro della nostra Città.
Ricorderemo anche tutte le volte che hanno taciuto, pur di non riflettere sulle critiche rivolte loro su scelte sbagliate a proposito del dissesto, del mancato rispetto del litorale, degli interventi sbagliati a tutela degli angoli caratteristici del paese, della incapacità a risolvere il problema dell'acqua, dell'improvvisazione nell'organizzazione degli eventi, dell'assenza totale di una strategia del turismo: ci ricorderemo di tutte queste cose e ci formeremo un giusto giudizio su chi in questi ultimi due anni ha (dis)amministrato il Paese, credendo di essere l'unico in grado di farlo e sparando ad alzo zero le sue cannonate demagogiche contro il passato e contro la povertà delle casse comunali, con il solo scopo di essere assolto.
Tutta questa inviperita demagogia ha funzionato forse nel primo anno d'amministrazione, ma ormai la stragrande maggioranza dei cittadini se ne dichiara stanca. Essi sembrano ormai disillusi e il sentirsi tali è giustificato da tutti i cinque sensi: l'olfatto, per quel che riguarda il depuratore mal funzionante; la vista, per il continuo oltraggio al patrimonio artistico e naturale; l'udito, per il totale inquinamento acustico del Centro Storico, invaso da motorette e karaoke improvvisato; il gusto, ormai perduto per l'assenza di prodotti alimentari locali e per l'uso esagerato di sale; il tatto, che non permette più di toccare senza rischi persino i fiori lungo le vie cittadine, troppo coperti del nero dello smog, che ne nasconde persino il colore naturale (avete mai visto in natura le margherite grigie?!).
Di fronte a questo sfacelo culturale, politico, economico e sociale si pone un'Amministrazione senza competenza, che confonde l'azione con l'agitazione, come nel caso del turismo, quando passa dai Russi ai Tedeschi con quella che i Francesi chiamano irresponsabile nonchalance, che per noi diventa noncuranza.
Allora la domanda diventa una soltanto: sopravviverà Cefalù? Soltanto in una sfera di cristallo potrà leggersi una risposta ottimistica, per chi ha la fantasia di crederci, perché per la ragione umana la risposta non può che essere NO!
A meno che...

lunedì 21 aprile 2014

Uno scellerato misfatto in Comune



La data dell'ultimo Consiglio comunale passerà sicuramente alla storia, per essere stato esso l'artefice di un atto scellerato, i cui effetti rischiano d'essere gravissimi anche in futuro, perché altri potrebbero apprendere la lezione sbagliata impartitaci da ben otto consiglieri.
Essi hanno dimenticato che i primi due commi dell'articolo 21 della Costituzione così recitano: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Non so se per ignoranza dell'articolo o per misconoscimento dei sacri principi, che sono alla base dell'intera intelaiatura della nostra Carta Costituzionale – per la cui affermazione morirono non pochi uomini – ma sta di fatto che durante l'ultimo Consiglio comunale ben otto consiglieri su venti hanno presentato quella che erroneamente hanno definito pregiudiziale, mentre invece era soltanto un bavaglio, perché aveva il solo scopo d'impedire di discutere un punto all'ordine del giorno.
Tutti, e fra essi Piero Calamandrei, si saranno rivoltati nella tomba, prendendo atto di quanto siano cattivi discepoli questi consiglieri. Lo stesso sarà accaduto ai tanti indimenticati cefaludesi, come Spinuzza e Mandralisca, che si batterono per la libertà. E dire che fra gli otto ce n'è uno che dichiara di avere la passione per la storia!
Fa specie, infatti, pensare che tale finta pregiudiziale sia stata presentata in un consesso democraticamente eletto per essere un baluardo proprio a difesa della democrazia, della libertà e del “diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero”. Eppure è accaduto, a dimostrazione che qualunque siano le ignoranze sommate, il risultato non potrà non essere che ancora un'ignoranza!
E quando l'ignoranza è sostenuta dalla forza dei numeri, s'impone alla sapienza, come s'impose a Socrate e a Gesù. Nulla di strano, dunque, che essa si sia imposta in Consiglio, impedendo di discutere su una questione, dalla quale deriveranno forse danni ingenti alle casse comunali.
Come ci ha insegnato un grande uomo di cultura, una democrazia non ha bisogno di oratori, ma di ascoltatori. Come credere che in Consiglio ci sia democrazia, se non soltanto non si vuole ascoltare, ma vi si toglie persino la parola?!
Ancora più specie fa il fatto che la cosiddetta pregiudiziale abbia avuto il parere favorevole del Segretario comunale, che, secondo la normativa, dovrebbe avere il compito, tra l'altro, di essere colui che esprime il parere sul rispetto delle norme giuridiche e, in particolare, della Costituzione!
Insomma, dobbiamo prendere atto che il problema del Consiglio non sarà risolvibile, finché non sarà imposto il rispetto dei principi basilari della Costituzione. Il resto, tutto il resto, sarà soltanto il prevalere dell'arroganza, che purtroppo fa rima con ignoranza.







martedì 18 febbraio 2014

Vogliono uccidere l'amore per il sapere

Ci risiamo, questa ottusa classe politica tenta ancora una volta di offuscare le menti degli Italiani, per non correre il rischio che essi possano avere strumenti logici, da utilizzare come strumenti capaci di scoprirne la pochezza.
Vogliono decidere, questi poveri mentecatti, di abolire lo studio della filosofia in alcune facoltà universitarie e di ridurlo di un anno – da tre a due – nei licei.
Già lo hanno fatto con la geografia, con la storia, con il latino e con l'educazione civica. Con la stessa matematica si è proceduto ad abolire ogni sforzo di ragionamento, sviluppato con la dimostrazione dei suoi teoremi, e pretendendo quanto più possibile soltanto lo sforzo mnemonico.
In tanti, cultori della filosofia e spesso filosofi essi stessi, hanno protestato, nella speranza di salvare quel poco che resta della nostra scuola. Sebbene abbiano protestato con argomentazioni inoppugnabili, c'è il rischio che la maggioranza creda che essi abbiano agito e agiscano in difesa di un loro esclusivo vantaggio.
In quest'epoca di approssimazioni e di difesa di un malinteso concetto della scienza, infatti, sono in molti a credere che la vera cultura consista nell'immediata effettualità del sapere che ci trasmette. In breve, la cultura sarà utile, soltanto se potremo servircene a scopi pratici e con applicazioni immediate.
Si dimentica, però, quel che la storia della scienza ci insegna, anche per bocca e con l'esempio dei grandi scienziati, ai quali dobbiamo le grandi scoperte, che hanno reso più facile la nostra vita e meno mortali le malattie. Se oggi voliamo da Palermo a New York in appena sette ore, lo dobbiamo certamente al sapere scientifico; se curiamo la polmonite e se possiamo usare questo computer, lo dobbiamo certamente al sapere scientifico: se non siamo, cioè, ancora allo stato primitivo, vittime di una atroce insicurezza, lo dobbiamo alla scienza e alle sue applicazioni pratiche. Lo dobbiamo agli scienziati, che hanno studiato la natura e per riuscirci hanno saputo applicare la loro mente. La mente, che non è soltanto il cervello sotto il cranio, ma la capacità di fare ipotesi; di essere, cioè, una mente filosofica.
Si pensi a Democrito ed Epicuro, che seppero ipotizzare l'atomo, poi scoperto oltre duemila anni dopo; si pensi a Newton e a Kant, ad Einstein e Maxwell: questi nominati e le centinaia di scienziati non nominati furono filosofi. Se non lo fossero stati, non avrebbero avuto una mente capace di aiutarli nella ricerca.
Oggi che cosa si vuol fare? Si vuole irresponsabilmente ritornare all'epoca che va dalla caduta dell'Impero romano all'anno Mille, quando l'assenza della filosofia rese gli uomini incapaci persino di coltivare la terra per nutrirsi e l'igiene per difendersi dalle pestilenze.
Voglio ricordare, per allontanarmi da riflessioni troppo erudite, un episodio della mia fanciullezza. Ero in visita presso i miei nonni paterni in un paesino del Messinese e là conobbi un signore, che raccontò come i suoi genitori vollero che studiasse, perché dallo studio sarebbe derivato non tanto un salto sociale, ma piuttosto la possibilità di essere utile agli altri. Era ancora alle medie, dove allora si studiava il latino, quando la madre, al suo rientro dalle vacanze, gli chiese di riferirle quali parole latine avesse imparato, come se questo fosse la misura dell'avanzamento culturale del figlio.
La donna, come il marito, non aveva studiato, ma il buon senso le indicava che quel latino, sebbene non potesse avere implicazioni pratiche, contribuiva all'apertura mentale del figlio. Quel buon senso che sembra mancare ai nostri politici, a meno che non vogliamo crederli tanto in malafede, da dedurre che essi vogliono cittadini con la mente sempre più chiusa, per trasformarli in sudditi impotenti.
Pensate per un momento quanto sarebbe necessario questo buon senso a Cefalù!