Ci fu un tempo lungo
oltre due secoli, in cui la società europea respirò un'atmosfera di
maggiore ricchezza, ma non per tutti. Anzi, soltanto per una sparuta
minoranza, che delle ricchezze ottenute grazie alle scoperte
geografiche – l'America in primis – godette i maggiori vantaggi.
Gli altri continuarono a essere poveri fino all'indigenza e il tasso
di mortalità non si abbassò: era frequente che si morisse bambini e
l'età media della popolazione non superava i quarant'anni.
Occorsero due secoli
abbondanti, perché si trovassero strategie atte a distribuire a
tutti i vantaggi della nuova
ricchezza e non soltanto alle corti reali e nei palazzi baronali.
Furono due secoli in cui aumentò lentamente la cultura, e con essa
la consapevolezza dell'uomo di essere artefice della propria vita e
del proprio futuro. L'Illuminismo scozzese di Hume, Smith e Ferguson
ne fu un esempio. Così come lo fu la crescita della scienza con
Galileo, Newton e altri, ivi comprese le sue applicazioni grazie ad
artigiani e tecnici, ai quali si devono il telaio meccanico, la
locomotiva a vapore e via di seguito.
Quindi,
non furono necessarie soltanto strategie, ma anche una crescita
culturale, che le rendesse attuabili. A mano a mano che esse si
affermarono, nacquero le produzioni di tessuti di cotone, con i quali
si vestirono anche i più poveri, perché il cotone costava meno; gli
opifici si distribuirono su tutto il territorio, perché ovunque, e
non soltanto in prossimità di fonti di energia come l'acqua, grazie
al vapore potevano essere azionati i telai e altri strumenti di
produzione; grazie allo sviluppo ferroviario anche parti internate e
prima abbandonate riuscirono a commercializzare i beni prodotti; a
poco a poco si svilupparono tecniche agricole più produttive e non
vi fu più bisogno d'impiegare manodopera numerosa, che così ebbe
modo di dedicarsi alla neo-industrializzazione.
Certo,
inizialmente ci fu sfruttamento, ma poi, grazie alla consapevolezza
della necessità della loro presenza, lo sfruttamento cedette il
passo al riconoscimento dei diritti della persona, con orari di
lavoro meno pesanti e soprattutto con la liberazione
dei bambini.
Allora
la ricchezza divenne più diffusa e diminuì il divario tra ricchi e
poveri. Anche i figli dei proletari studiarono e accrebbero la
cultura della loro classe sociale. Questa accresciuta cultura la
elevò e le diede consapevolezza del proprio valore. Anzi, finì con
il dimostrare che la vera ricchezza non consisteva nell'avere,ma
nell'essere. Essere, cioè,
menti aperte e depositari di conoscenza.
Una
nuova ricchezza si affacciava nel panorama sociale; una ricchezza
sempre più diffusa. Adesso non era più un problema di grande
divario fra ricchi e poveri, ma quello tra uomini impegnati nello
studio e uomini imbelli, adagiati sulle loro effimere ricchezze.
Questa
fu la vera rivoluzione industriale, non casualmente nata a metà del
XVIII secolo in Inghilterra, l'Inghilterra di Hume, di Smith, di
Locke. Un'Inghilterra alla quale dobbiamo la nascita della società
del benessere, che fu rallentata nell'Europa continentale da un
illuminismo diverso: quello francese, che in molte sue parti – per
fortuna non tutte – credeva di poter dominare le leggi della
natura, che dovevano sottomettersi alla ragione.
Una ragione che non ammetteva alcun limite, per cui coloro che ne
erano convinti pensavano di poter cambiare la società e se i loro
tentativi causavano povertà e persino morti, ci si difendeva dicendo
che presto si sarebbe avuto l'avvento della libertà e del principio
di a ciascuno secondo i suoi bisogni.
La vita era altrove!
Il
comunismo fu l'ultimo doloroso esempio di questo aberrante pensiero.
Un pensiero che ha avuto e ha ancora tristi conseguenze sociali e
culturali. Esso ha segnato, infatti, un ritorno al Medioevo, quando i
più morivano ancora bambini e gli altri rappresentavano la classe
ricca, ricchissima, lontana dai veri bisogni della società, troppo
abituata all'arroganza e incapace di dare il benché minimo
contributo alla società.
Discettare
oggi sui problemi della nostra società, dimenticando di guardare ai
suoi veri problemi, equivale a essere ciechi come un illuminista
francese alla Rousseau. Equivale a pensare che un sistema nato nella
nostra mente possa, se calato nella realtà, risolverne tutti i
problemi e a renderla felice.
Ma,
bisognerebbe dire a questi signori, come pensano di migliorare la
vita dei più, se questi più vengono tartassati, aumentando così il
divario che li separa dagli avvantaggiati? Come si spera di aiutare
la società sempre più povera, se si difendono i privilegi di una
casta, che è anche la
detentrice del potere di fare leggi?
Questa
casta non sta
distruggendo i vantaggi di secoli, ma per ignoranza sta distruggendo
anche se stessa. Se, infatti, la percentuale dei poveri sarà sempre
più grande, chi consumerà, se non soltanto i ricchi, sempre meno
numerosi? E i loro consumi riusciranno a essere tali da consentire di
mantenere la produzione? E se la produzione di beni diminuirà, che
fine farà il lavoro di tanti operai? Non andremo incontro a una
povertà peggiore di quella medievale, visto che a essa non siamo più
abituati come lo erano gli uomini del Medioevo?
Di
fronte a questi problemi si tace. La casta
crede, come la maggioranza sempre più disperata, che tutto potrà
essere risolto da un sempre maggiore statalismo, non accorgendosi che
proprio un eccesso di statalismo è stato la causa di questi
problemi: siamo alla psicanalisi di Freud, che è la malattia che
cura se stessa.
Forse
sarebbe ora che ognuno di noi facesse il proprio dovere non con i
lamenti, ma con il massimo della consapevolezza delle cause vere dei
problemi e senza gli infingimenti e le mistificazioni ai quali
dovremmo essere ubbidienti, come vorrebbe la casta,
che ce li propina ogni giorno. La casta
a ogni livello; i forconi
nutritisi fino a oggi alla mammella di mamma Stato;
i politici che promettono di cambiare il mondo, non precisando, però,
che vogliono cambiarlo retrocedendolo; i sindaci incapaci d'indicare
soluzioni vere e disposti a dare la colpa a mamma Stato o
ai loro predecessori; i sindacalisti che alla crescita della
ricchezza hanno anteposto la redistribuzione, dimentichi che finita
la ricchezza non si ha nulla da distribuire.
L'elenco
potrebbe continuare per lunghi capitoli, ma non servirebbe a nulla,
se non prendiamo coscienza che in questi ultimi cinquant'anni non
siamo stati derubati, con la nostra complicità, soltanto di
ricchezza materiale, ma anche di libertà, di dignità e di futuro.
È
tempo di dire basta!