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mercoledì 18 dicembre 2013

L'aumentato divario tra ricchi e poveri

Ci fu un tempo lungo oltre due secoli, in cui la società europea respirò un'atmosfera di maggiore ricchezza, ma non per tutti. Anzi, soltanto per una sparuta minoranza, che delle ricchezze ottenute grazie alle scoperte geografiche – l'America in primis – godette i maggiori vantaggi. Gli altri continuarono a essere poveri fino all'indigenza e il tasso di mortalità non si abbassò: era frequente che si morisse bambini e l'età media della popolazione non superava i quarant'anni.
Occorsero due secoli abbondanti, perché si trovassero strategie atte a distribuire a tutti i vantaggi della nuova ricchezza e non soltanto alle corti reali e nei palazzi baronali. Furono due secoli in cui aumentò lentamente la cultura, e con essa la consapevolezza dell'uomo di essere artefice della propria vita e del proprio futuro. L'Illuminismo scozzese di Hume, Smith e Ferguson ne fu un esempio. Così come lo fu la crescita della scienza con Galileo, Newton e altri, ivi comprese le sue applicazioni grazie ad artigiani e tecnici, ai quali si devono il telaio meccanico, la locomotiva a vapore e via di seguito.
Quindi, non furono necessarie soltanto strategie, ma anche una crescita culturale, che le rendesse attuabili. A mano a mano che esse si affermarono, nacquero le produzioni di tessuti di cotone, con i quali si vestirono anche i più poveri, perché il cotone costava meno; gli opifici si distribuirono su tutto il territorio, perché ovunque, e non soltanto in prossimità di fonti di energia come l'acqua, grazie al vapore potevano essere azionati i telai e altri strumenti di produzione; grazie allo sviluppo ferroviario anche parti internate e prima abbandonate riuscirono a commercializzare i beni prodotti; a poco a poco si svilupparono tecniche agricole più produttive e non vi fu più bisogno d'impiegare manodopera numerosa, che così ebbe modo di dedicarsi alla neo-industrializzazione.
Certo, inizialmente ci fu sfruttamento, ma poi, grazie alla consapevolezza della necessità della loro presenza, lo sfruttamento cedette il passo al riconoscimento dei diritti della persona, con orari di lavoro meno pesanti e soprattutto con la liberazione dei bambini.
Allora la ricchezza divenne più diffusa e diminuì il divario tra ricchi e poveri. Anche i figli dei proletari studiarono e accrebbero la cultura della loro classe sociale. Questa accresciuta cultura la elevò e le diede consapevolezza del proprio valore. Anzi, finì con il dimostrare che la vera ricchezza non consisteva nell'avere,ma nell'essere. Essere, cioè, menti aperte e depositari di conoscenza.
Una nuova ricchezza si affacciava nel panorama sociale; una ricchezza sempre più diffusa. Adesso non era più un problema di grande divario fra ricchi e poveri, ma quello tra uomini impegnati nello studio e uomini imbelli, adagiati sulle loro effimere ricchezze.
Questa fu la vera rivoluzione industriale, non casualmente nata a metà del XVIII secolo in Inghilterra, l'Inghilterra di Hume, di Smith, di Locke. Un'Inghilterra alla quale dobbiamo la nascita della società del benessere, che fu rallentata nell'Europa continentale da un illuminismo diverso: quello francese, che in molte sue parti – per fortuna non tutte – credeva di poter dominare le leggi della natura, che dovevano sottomettersi alla ragione. Una ragione che non ammetteva alcun limite, per cui coloro che ne erano convinti pensavano di poter cambiare la società e se i loro tentativi causavano povertà e persino morti, ci si difendeva dicendo che presto si sarebbe avuto l'avvento della libertà e del principio di a ciascuno secondo i suoi bisogni. La vita era altrove!
Il comunismo fu l'ultimo doloroso esempio di questo aberrante pensiero. Un pensiero che ha avuto e ha ancora tristi conseguenze sociali e culturali. Esso ha segnato, infatti, un ritorno al Medioevo, quando i più morivano ancora bambini e gli altri rappresentavano la classe ricca, ricchissima, lontana dai veri bisogni della società, troppo abituata all'arroganza e incapace di dare il benché minimo contributo alla società.
Discettare oggi sui problemi della nostra società, dimenticando di guardare ai suoi veri problemi, equivale a essere ciechi come un illuminista francese alla Rousseau. Equivale a pensare che un sistema nato nella nostra mente possa, se calato nella realtà, risolverne tutti i problemi e a renderla felice.
Ma, bisognerebbe dire a questi signori, come pensano di migliorare la vita dei più, se questi più vengono tartassati, aumentando così il divario che li separa dagli avvantaggiati? Come si spera di aiutare la società sempre più povera, se si difendono i privilegi di una casta, che è anche la detentrice del potere di fare leggi?
Questa casta non sta distruggendo i vantaggi di secoli, ma per ignoranza sta distruggendo anche se stessa. Se, infatti, la percentuale dei poveri sarà sempre più grande, chi consumerà, se non soltanto i ricchi, sempre meno numerosi? E i loro consumi riusciranno a essere tali da consentire di mantenere la produzione? E se la produzione di beni diminuirà, che fine farà il lavoro di tanti operai? Non andremo incontro a una povertà peggiore di quella medievale, visto che a essa non siamo più abituati come lo erano gli uomini del Medioevo?
Di fronte a questi problemi si tace. La casta crede, come la maggioranza sempre più disperata, che tutto potrà essere risolto da un sempre maggiore statalismo, non accorgendosi che proprio un eccesso di statalismo è stato la causa di questi problemi: siamo alla psicanalisi di Freud, che è la malattia che cura se stessa.
Forse sarebbe ora che ognuno di noi facesse il proprio dovere non con i lamenti, ma con il massimo della consapevolezza delle cause vere dei problemi e senza gli infingimenti e le mistificazioni ai quali dovremmo essere ubbidienti, come vorrebbe la casta, che ce li propina ogni giorno. La casta a ogni livello; i forconi nutritisi fino a oggi alla mammella di mamma Stato; i politici che promettono di cambiare il mondo, non precisando, però, che vogliono cambiarlo retrocedendolo; i sindaci incapaci d'indicare soluzioni vere e disposti a dare la colpa a mamma Stato o ai loro predecessori; i sindacalisti che alla crescita della ricchezza hanno anteposto la redistribuzione, dimentichi che finita la ricchezza non si ha nulla da distribuire.
L'elenco potrebbe continuare per lunghi capitoli, ma non servirebbe a nulla, se non prendiamo coscienza che in questi ultimi cinquant'anni non siamo stati derubati, con la nostra complicità, soltanto di ricchezza materiale, ma anche di libertà, di dignità e di futuro.
È tempo di dire basta!

martedì 10 dicembre 2013

La tirannia dei dilettanti allo sbaraglio

Vilfredo Pareto scrisse che “la storia è un cimitero di aristocrazie”, intendendo con il termine aristocrazia élite, che altro non è, se non l'aristocrazia nella democrazia.
Mai come ai nostri giorni le élite sono finite con tanta rapidità. Si pensi alla classe dirigente democristiana, i cui rappresentanti cambiarono quasi con cadenza annuale (Fanfani, Moro, Colombo, Rumor, Piccoli eccetera); si pensi a quella socialista, i cui rappresentanti cambiarono con cadenza più lunga, ma pur sempre troppo breve; quella comunista cambiò con minore cadenza, e questo le permise di durare più a lungo e di superare le difficoltà delle altre élite, essendo essa più abituata a servirsi della demagogia. Tralascio le altre élite e mi soffermo sulle loro degenerazioni: la caduta nell'aristocrazia di un solo uomo, Berlusconi.
Se riandiamo con la memoria alla storia politica greca, vi ritroviamo non pochi pensatori che, riflettendo sulla ineluttabilità di questo decadimento, distinguevano un passaggio dall'oligarchia (il governo di pochi) alla democrazia (il governo di tutti), poi dalla democrazia alla demagogia ( il governo dell'inganno) e infine alla tirannia (il governo di uno).
Non voglio portare a esempio, per dimostrare quanta verità c'è in questa riflessione, la politica nazionale, troppo lontana dal nostro quotidiano, e mi limito a quella locale, a quella comunale. I giovani ne conoscono soltanto la parte di questi ultimi anni, ma coloro che hanno la mia età hanno vissuto gli anni d'oro della democrazia, quando fu sindaco di Cefalù Giuseppe Giardina e quando la vita sociale ed economica del Paese era affidata a élite culturali dai meriti indubbi.
Questa élite era seguita da tutto il popolo e persino quelli che le si opponevano ne avevano rispetto per le sue indiscutibili qualità.
Poi le cose cambiarono e con esse cambiò l'élite. Prima prese campo la corruzione e poi, quando la situazione di crisi dilagante rese difficile la corruzione, subentrò la demagogia, finché non siamo caduti nella tirannia. Non trovo, infatti, altro sostantivo per definire l'attuale sindacatura Lapunzina, uscita dalle urne senza maggioranza in Consiglio, quasi a voler sottolineare che i cittadini non si fidavano e volevano una opposizione in grado di controllarlo.
Non potevano prevedere, i cittadini, che avrebbe usato la situazione disperata del Comune per convincere parte di questa opposizione ad appoggiarlo nell'interesse della Città. Le sue proposte, però, non erano e non sono in grado di fare il bene della Città, per cui alcuni consiglieri, resosene conto, lo hanno lasciato in balia di una finta maggioranza. Con il risultato che egli è rimasto solo ad amministrare ed è stato trasformato giocoforza in un tiranno. Soprattutto se si considerano i troppi silenzi di coloro che dovrebbero collaborarlo.
Come accade a tutti i tiranni, presto una sorta di delirio di onnipotenza si è impadronito di lui, facendogli affermare spesso rispettami, sono il Primo Cittadino oppure che l'acqua è potabile, anzi non lo è e persino che il dissesto finanziario non c'è più, rimangono soltanto i debiti. Tutte affermazioni fatte con troppa serietà, dallo stesso Sindaco e da alcuni suoi seguaci, poco consapevoli che i cittadini li prendono per quel che sono: esempi di dilettanti allo sbaraglio.
Inconsapevoli, essi aumentano i rischi del Paese e preparano a se stessi una fine ingloriosa. Andranno, come diceva Pareto, a popolare l'ennesimo “cimitero delle aristocrazie”, non avendone, però, incarnata neppure l'apparenza.