Ho un ricordo, che voglio
condividere soprattutto con i giovani, che purtroppo leggono poco, e
con i miei più o meno coetanei, che leggono meno dei giovani e che
perciò non conoscono persino il nome del poeta e scrittore argentino
Jorge Luis Borges.
Io non solamente conosco
il suo nome, ma l'ho conosciuto personalmente nel marzo 1984 a
Palermo, presso la sede del Banco di Sicilia, quando venne a Palermo
per ritirare il premio Novecento,
che gli era stato attribuito dalla casa editrice omonima, che aveva
pubblicato Colloqui con Borges
della sua ex alunna Maria Esther Vazquez.
Borges
intervenne a diversi incontri, durati tre giorni. Nonostante fosse
già cieco e ottantenne, era infaticabile. La sua cecità non gli
pesava. Aveva scritto nella sua raccolta di poesie, La rosa
profunda, che con la vista aveva
“perduto solamente/la vana superficie delle cose.”.
Ed era vero, aveva perduto soltanto le cose vane! Quelle che
contavano le aveva costruite nella sua mente e nel suo cuore; la
mente e il cuore di un poeta. Non per nulla aveva concluso una sua
poesia con i seguenti versi: “No
importa mi ventura o mi disventura/soy el poeta,”.
“Io
sono individualista e, in quanto tale, sono stato antiperonista, come
sono anticomunista, come sono antifascista”
dichiarò nella sua seconda conferenza, rispondendo all'osservazione
di un partecipante, che gli chiedeva di alcuni suoi giudizi su
Isabelita Peron, su Videla e sullo stesso Pinochet. Nulla gli
importava che forse per colpa di tali suoi giudizi non gli era stato
assegnato il premio Nobel. Anzi, diceva: “Dio
non voglia che io vinca quel premio, perché diventerei parte di una
lista; invece, il non essere premiato costituisce un vero e proprio
mito scandinavo: l’autore che non è mai stato premiato. E io
preferirei essere un mito.”.
Queste
sue dichiarazioni me lo rendevano stimabile tanto quanto me lo rese
ammirevole la sua memoria e la sua considerazione dei due sommi Poeti
italiani, Dante e Ariosto, che non soltanto aveva letto, ma che
citava, ripetendone a memoria i versi.
Se
poi si considerano le sue parole di elogio per la Sicilia e la sua
cultura greca e latina, il mio desiderio di potere parlargli, magari
soltanto per stringergli la mano, era fortissimo, ma non osavo, vuoi
per timidezza e vuoi per il timore di apparirgli un trentenne
presuntuosetto. Superai questo mio timore, quando lo vidi, durante
una pausa, parlare con Giusto Monaco, grande grecista e preside della
facoltà di Lettere e Filosofia, ma soprattutto mio amico. Mi feci
coraggio e mi avvicinai ai due. Giusto Monaco appena mi vide mi
sorrise e mi fece segno d'avvicinarmi. Io fui felice di avvicinarmi e
ancora più felice lo fui, quando mi presentò a Borges con parole di
stima nei miei confronti e dicendogli che più volte avevo parlato
con lui della Biblioteca
di Babele
e dell'Aleph.
Borges mi sorrise e spinse avanti la sua mano, che io strinsi. Ero
quasi in estasi!
Con
fatica distinsi le sue parole, che mi spinsero a chiedergli da che
cosa gli derivava il suo amore per la Sicilia. Mi rispose così: “Da
bambino ho vissuto a Buenos Aires in un quartiere chiamato Palermo.
Questo nome gli era stato dato da Juan Dominguez, un palermitano
emigrato in Argentina sul finire del 1500. Quindi, fin da bambino ho
pensato di essere a mia volta un siciliano, figlio di emigrati. È
questa la ragione, che mi ha reso gradito questo viaggio in
Sicilia.”.
Queste furono a un dipresso le parole di Borges, che ho cercato di
riportare fedelmente. Altre non ve ne furono, perché si avvicinarono
per invitarlo a tornare sul palco della conferenza.
Da
allora sono trascorsi ben trentadue anni e io ricordo quel momento
come uno dei migliori della mia vita. Il suo ricordo mi aiuta a
sopportare di vivere oggi in un'epoca “zotica e vil”, come diceva
un altro Poeta italiano, che a Borges piaceva tanto.