Quasi tutto il '900 fu
attraversato dal pensiero di Benedetto Croce. È ancora ricordato
fuori d'Italia, ma non più in Italia. In quell'Italia per la quale
rappresentò, nel triste Ventennio fascista, una vera e propria luce
di libertà. Una luce così forte, che raggiungeva le menti di tutto
il Pianeta, al punto che lo stesso Mussolini, consapevole del danno,
che ne sarebbe derivato alla sua immagine, non osò mai mostrare nei
suoi confronti intolleranza e sopportò che la sua rivista La
Critica vivesse tranquilla,
sebbene spesso vi apparissero scritti critici sul Fascismo.
Dai
libri di Croce imparai ad amare la libertà e m'incuriosii di arte e
di estetica. Questa curiosità e quell'apprendimento oggi mi
costringono a rileggere le sue pagine, ma con la lentezza dovuta alle
obbligate riflessioni suscitate da quel possente pensiero.
Certo,
il Croce, che lessi e studiai in gioventù, oggi mi si presenta in
molte parti non condivisibile, ma non per questo Egli ha perso il suo
fascino. Il fascino che ti lascia il sapore di una tua crescita
morale, prima ancora che intellettuale. Sì, morale, perché Croce fu
un alfiere di leggi morali, così dimenticate nei nostri giorni.
Tanto dimenticate, da aver lasciato spazio alle agitazioni prive, in
chi le compie, di ogni beneficio del dubbio. Sembra di essere tornati
al V secolo avanti Cristo, quando ad Atene i sofisti insegnavano ai
politici del tempo ad ingannare con la parola e a nascondere, con
essa, le loro responsabilità.
Proprio
in questi giorni, leggendo La storia come pensiero e come
azione, mi sono imbattuto in
questa frase: “La violenza non è forza, ma debolezza, né
mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto
distruggitrice”. La frase si
trova nel VI capitolo del libro, non a caso intitolato: Forza
e violenza, ragione e impulso.
La
frase mi ha colpito più di quanto mi avesse colpito quando la lessi
la prima volta. Non perché il concetto mi giungeva nuovo, ma perché
esso mi aiutava a spiegare molti fatti della cronaca politica
odierna. E quando dico odierna, mi riferisco agli ultimi vent'anni,
agli anni della cosiddetta seconda Repubblica. La Repubblica
concepita nel letto sporco della corruzione, ma mai nata, perché
essa ha finito con l'essere un aborto, nato dall'incrocio tra la
violenza del populismo e la paura di perdere i propri privilegi.
Questa
politica, questo
aborto, non ha creato cosa alcuna, ma ha soltanto
distrutto, come diceva Croce. Ha
distrutto non soltanto il presente, ma anche la speranza nel futuro.
Ecco perché la forza dei giovani non è più diretta dalla ragione,
ma dall'impulso, e si esprime con la violenza. Con la violenza i
giovani credono di combattere a Milano un'espressione del capitalismo
e non si accorgono che l'expo non è capitalismo, ma l'espressione
del più bieco statalismo. Credono, più o meno in buonafede, che la
loro disoccupazione sia figlia del profitto
e non dell'assenza di profitto imprenditoriale. Se il profitto
imprenditoriale non fosse ormai rapinato con la violenza da una
tassazione esageratamente grande, esso accrescerebbe la produzione, i
consumi e i posti di lavoro.
A
questa violenza dei giovani e dei poveri, la politica oppone la
propria violenza, volta non a garantire la Giustizia, ma la
conservazione della propria ingiustizia e del proprio tornaconto. La
paura di perdere i propri privilegi spinge i politici alla
mistificazione e alla violenza per difendersi.
Quanto
potrà durare ancora uno Stato senza ragione,
in cui tutti agiscono spinti da un impulso senza riflessione? Credo
molto poco e anche se questo non è più il tempo delle rivoluzioni,
la decadenza somiglia troppo a quella dell'ultimo Impero Romano, che
crollò non per una rivoluzione, ma per la debolezza delle sue
istituzioni, che prima lasciarono sparire ogni grandezza morale e
ogni disciplina del popolo romano e poi cedettero di fronte ai
barbari, che almeno una loro morale l'avevano: quella della forza
fisica come espressione di eroismo. Noi, invece, abbiamo perso ogni
capacità di eroismo e cediamo ogni giorno di fronte ai nuovi
barbari, che nella sponda africana sono in attesa d'invaderci e di
darci un esempio di violenza, dalla quale non potremo non essere
sopraffatti.