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lunedì 2 gennaio 2017

Ho un ricordo, che voglio condividere soprattutto con i giovani, che purtroppo leggono poco, e con i miei più o meno coetanei, che leggono meno dei giovani e che perciò non conoscono persino il nome del poeta e scrittore argentino Jorge Luis Borges.
Io non solamente conosco il suo nome, ma l'ho conosciuto personalmente nel marzo 1984 a Palermo, presso la sede del Banco di Sicilia, quando venne a Palermo per ritirare il premio Novecento, che gli era stato attribuito dalla casa editrice omonima, che aveva pubblicato Colloqui con Borges della sua ex alunna Maria Esther Vazquez.
Borges intervenne a diversi incontri, durati tre giorni. Nonostante fosse già cieco e ottantenne, era infaticabile. La sua cecità non gli pesava. Aveva scritto nella sua raccolta di poesie, La rosa profunda, che con la vista aveva “perduto solamente/la vana superficie delle cose.”. Ed era vero, aveva perduto soltanto le cose vane! Quelle che contavano le aveva costruite nella sua mente e nel suo cuore; la mente e il cuore di un poeta. Non per nulla aveva concluso una sua poesia con i seguenti versi: “No importa mi ventura o mi disventura/soy el poeta,”.
Io sono individualista e, in quanto tale, sono stato antiperonista, come sono anticomunista, come sono antifascista” dichiarò nella sua seconda conferenza, rispondendo all'osservazione di un partecipante, che gli chiedeva di alcuni suoi giudizi su Isabelita Peron, su Videla e sullo stesso Pinochet. Nulla gli importava che forse per colpa di tali suoi giudizi non gli era stato assegnato il premio Nobel. Anzi, diceva: “Dio non voglia che io vinca quel premio, perché diventerei parte di una lista; invece, il non essere premiato costituisce un vero e proprio mito scandinavo: l’autore che non è mai stato premiato. E io preferirei essere un mito.”.
Queste sue dichiarazioni me lo rendevano stimabile tanto quanto me lo rese ammirevole la sua memoria e la sua considerazione dei due sommi Poeti italiani, Dante e Ariosto, che non soltanto aveva letto, ma che citava, ripetendone a memoria i versi.
Se poi si considerano le sue parole di elogio per la Sicilia e la sua cultura greca e latina, il mio desiderio di potere parlargli, magari soltanto per stringergli la mano, era fortissimo, ma non osavo, vuoi per timidezza e vuoi per il timore di apparirgli un trentenne presuntuosetto. Superai questo mio timore, quando lo vidi, durante una pausa, parlare con Giusto Monaco, grande grecista e preside della facoltà di Lettere e Filosofia, ma soprattutto mio amico. Mi feci coraggio e mi avvicinai ai due. Giusto Monaco appena mi vide mi sorrise e mi fece segno d'avvicinarmi. Io fui felice di avvicinarmi e ancora più felice lo fui, quando mi presentò a Borges con parole di stima nei miei confronti e dicendogli che più volte avevo parlato con lui della Biblioteca di Babele e dell'Aleph. Borges mi sorrise e spinse avanti la sua mano, che io strinsi. Ero quasi in estasi!
Con fatica distinsi le sue parole, che mi spinsero a chiedergli da che cosa gli derivava il suo amore per la Sicilia. Mi rispose così: “Da bambino ho vissuto a Buenos Aires in un quartiere chiamato Palermo. Questo nome gli era stato dato da Juan Dominguez, un palermitano emigrato in Argentina sul finire del 1500. Quindi, fin da bambino ho pensato di essere a mia volta un siciliano, figlio di emigrati. È questa la ragione, che mi ha reso gradito questo viaggio in Sicilia.”. Queste furono a un dipresso le parole di Borges, che ho cercato di riportare fedelmente. Altre non ve ne furono, perché si avvicinarono per invitarlo a tornare sul palco della conferenza.
Da allora sono trascorsi ben trentadue anni e io ricordo quel momento come uno dei migliori della mia vita. Il suo ricordo mi aiuta a sopportare di vivere oggi in un'epoca “zotica e vil”, come diceva un altro Poeta italiano, che a Borges piaceva tanto.

lunedì 26 dicembre 2016

Le invasioni prima di Crocetta

C'è un nome, che dà alla Sicilia lustro più di quanto ne diano tanti altri, succedutisi nei secoli in questa terra straordinaria, che oggi soffre proprio a causa dell'ignoranza di tale nome. Il nome di un uomo coraggioso e intelligente, che ai suoi tempi si batté per l'indipendenza della Sicilia dai Greci e dai Fenici-Cartaginesi. È il nome di Ducezio.
In questo periodo natalizio, che non è proprio un periodo di pace fraterna fra gli uomini, ma di attentati e di morti, di bambini senza futuro e sofferenti, di arroganza e supponenza di coloro che dicono falsamente di volere il bene di tutti: in questo periodo di agonia della nostra civiltà è giusto e doveroso ricordare Ducezio, che per questa civiltà si è battuto per tutta la sua vita.
Ricordarlo equivale a ricordarci della nostra storia, che non sfigura di fronte ai Comuni medievali in lotta per la libertà o alle rivoluzioni dell'Ottocento, che resero migliore l'Europa. Se egli avesse vinto, sarebbe migliore anche la Sicilia; se noi lo ricorderemo, imparandone la lezione, riusciremmo a riprendere il cammino verso tale miglioramento e la Sicilia sarebbe ancora una volta indicata come un faro di civiltà e di tolleranza, come lo fu con Ruggero II e con Federico II.
È con questa speranza che tento un veloce excursus storico degli albori della storia della Sicilia.
Certamente di quel periodo storico non abbiamo testimonianze dirette, ma ci vengono in aiuto gli storici Tucidide e Diodoro Siculo, che nei loro scritti fecero spesso riferimento a esso, riportando notizie e nomi, che altrimenti sarebbero oggi dimenticati. Un altro aiuto ce lo dà anche il poeta Omero, a condizione di leggere nella sua Iliade non i fatti derivanti dalle gelosie degli uomini o degli dei, ma le conseguenze dello scontro titanico dei Greci contro gli Ittiti dell'attuale Turchia.
Apprendiamo dai due storici che dalla fusione dei Sicani con i Siculi venne fuori il primo popolo siciliano, che diede nome alla Sicilia, che i Greci si ostinarono a chiamare Trinacria per la sua forma. Ducezio era dunque quello che oggi chiameremmo un siciliano doc, perché figlio di un popolo, che nulla aveva a che vedere con le altre popolazioni del Mediterraneo d'allora. Quando questo popolo si era già insediato nell'Isola e aveva imparato a sfruttarne il territorio, creando città e sviluppando l'agricoltura, l'espansione di altri popoli determinò un cambiamento nella vita dei Siculi, che si videro minacciati dai Greci a oriente e dai Fenici a occidente, anche se entrambi provenivano da oriente rispetto alla Sicilia: i Greci dalla montuosa e povera penisola greca e i Fenici dall'attuale Libano.
Tra i due popoli invasori c'era una sostanziale differenza. I primi, i Greci, avevano in mente la conquista di tutta la Sicilia. Ovunque arrivavano, fondavano le loro città e scacciavano le popolazioni residenti, non disdegnando di ricorrere perfino al genocidio.
Diverse erano le intenzioni dei Fenici. A loro interessava creare approdi utili a svolgere il loro commercio, per il quale era indispensabile che le popolazioni originarie continuassero a esistere. In fondo erano pacifici mercanti, che rifuggivano dall'uso delle armi. La pressione dei Greci e l'arrivo degli Elimi, in fuga dall'attuale Turchia minacciata dagli Ittiti, spinse all'alleanza i Fenici e gli stessi Elimi, che insieme combatterono contro i minacciosi Greci.
I Siculi si trovarono stretti nella tenaglia di questi popoli e si ritirarono verso l'interno dell'Isola, fondando nei luoghi più facili da difendere nuove città. Nacquero così Morgantina, Pantalica, la stessa Butera – che prese il nome dal suo fondatore, il mitico re siculo Bute – e altri piccoli centri. Ecco la ragione per cui tutti i ritrovamenti archeologici di queste città sono diversissime da quelle delle città greche.
In questo periodo, caratterizzato da guerre tra Greci e Cartaginesi e persino tra le città greche, i Siculi vivono come asserragliati all'interno della Sicilia, quando il loro re Ducezio decide di creare un regno siculo, fondando la sua capitale Paliké, e di scacciare gli invasori Greci e Cartaginesi dalla Sicilia. Combatte per vent'anni, finché non cade prigioniero dei Greci di Siracusa, dove parla nell'agorà con orgoglio e senza paura. Colpiti dalla sua personalità, i Greci lo risparmiano, ma lo costringono all'esilio nell'Italia meridionale. Ducezio però fugge e ritorna nella sua Sicilia, pronto a riprendere la lotta contro gli invasori. Fonda sui Nebrodi la città di Calacte, oggi Caronia, e riprende la lotta, che interrompe soltanto con la morte, quand'era poco più che quarantenne.
La sua eredità, fatta di orgoglio e di coraggio, non è morta con lui, se noi la ricordiamo e del ricordo ci serviamo per continuare la sua lotta per la Sicilia e per la sua libertà dai Crocetta e dai deputatini della sua Assemblea regionale, più pericolosi degli invasori greci e fenici.

domenica 30 ottobre 2016

Catone è il nuovo sindaco di Cefalù

A Cefalù, da quando c'è questa Amministrazione, sapere e creatività sono stati banditi. Ufficialmente regna la felicità, ma la paura vaga per la città, una paura avvertita da tutti. Una paura che non sa fare sentire la sua voce e quando tale voce cerca di venir fuori, essa viene zittita dalle mistificazioni di chi accusa coloro che se ne fanno interpreti di soffrire di una forma di ipercriticismo o di “voler fare politica” - come se fare politica sia un diritto dei soli rappresentanti eletti. A costoro può contestarsi che la loro opinione della democrazia ha un peccato originale: quello di pretendere di essere prescelti a rappresentare i cittadini da chi non “fa politica”; da quelli, cioè, che non possono giudicarli. Questa non è democrazia!
Contestarglielo, però, non serve, se la contestazione non è seguita da una bocciatura elettorale. Ma perché essa possa esserci, è necessaria la partecipazione dei cittadini alla vita politica; soprattutto, è necessario che l'opinione pubblica impari ad avere più consapevolezza dei problemi della realtà che la circonda. Soltanto così gli uomini potranno rendersi conto della frattura esistente fra i propri convincimenti e la propria esistenza; potranno definirsi cittadini, che hanno consapevolezza dei propri principi.
Per la politica nazionale, i cui problemi pretendono, per essere risolti, una capacità d'astrazione e di preparazione oltre la media, questa consapevolezza dei propri principi e del modo più idoneo per affermarli presenta non poche difficoltà. Difficoltà, che possono essere superate grazie all'intermediazione di opinion leaders, che provvedono attraverso la loro parola a semplificare la conoscenza dei problemi della società.
Il punto, allora, è quello di saper scegliere tali intermediari. E chi sono costoro, se non coloro che hanno dimostrato di saper risolvere i problemi del proprio comune? Coloro che, avendo saputo risolvere i problemi della piccola comunità, si sono guadagnata la fiducia dei cittadini, che di quei problemi avevano consapevolezza, scienza e coscienza.
Ecco allora l'importanza di un sindaco e degli amministratori locali. Essi, come il buon padre di famiglia, sono gli interpreti della saggezza, guadagnando la stima dei propri amministrati e, quindi, anche la credibilità per consigliare le scelte elettorali nazionali.
Da alcuni anni purtroppo si sono invertiti i ruoli. I cittadini sono stati convinti, infatti, che per essere un buon sindaco si deve godere di “amicizie” “in alto”, alle quali chiedere finanziamenti, spesso per investimenti che un saggio non farebbe mai. Lentamente questa mentalità ha corrotto la società e i cittadini si sono ritrovati in balia di politici senza principi, ignoranti e talvolta anche materialmente disonesti. E di conseguenza è degenerato anche il livello della classe politica comunale. Adesso è tardi per lamentarsi e accusare i politici scelti di tutte le nefandezze possibili e di egoismo. È tardi per lamentarsi, ma non è tardi per rimediare.
Basta soltanto prendere coscienza dei nostri errori e togliere la nostra fiducia a chi l'ha tradita. Basta fare un esame approfondito degli errori commessi a Cefalù dall'attuale Amministrazione, per non rinnovarla ai suoi uomini alle prossime elezioni amministrative. Suggerendo, magari, di chiedere agli organizzatori del giro ciclistico nazionale una bicicletta per liberare più velocemente il Paese della loro presenza.
Allontanatisi costoro, rivolgersi al nuovo; rivolgersi a coloro che i Romani chiamavano homines novi, perché non solo essi, ma anche i loro avi, non avevano mai ricoperto cariche pubbliche. Questi uomini nuovi non è difficile sceglierli, in un comune dove ci si conosce tutti e dove ognuno conosce i comportamenti dell'altro. Conosce anche i suoi pregi e i suoi difetti, per cui potrà sbagliare soltanto a causa della pigrizia di usare l'intelletto o a causa di una personale rinuncia alla propria dignità di uomo libero.
Vedremo che cosa accadrà.

sabato 29 ottobre 2016

Mandralisca: la Regione risponde "marameo!"


Fermi alla stazione ferroviaria di Cefalù, il Sindaco e il Presidente del Museo, circondati da uno stuolo di amici e sostenitori, aspettano che arrivi il treno da Palermo. Quel treno sul quale viaggia un Assessore regionale con una valigia colma di ben 290.000 euro, da dare al Museo Mandralisca.
La campanella suona con il suo trillo assordante e tutti se ne stanno in silenziosa e ansiosa attesa. Pensano. Pensano al rilancio del Museo, fiore all'occhiello di Cefalù insieme alla Cattedrale. Se qualcuno potesse entrare nella mente di quegli uomini, però, si accorgerebbe che non stanno pensando, ma soltanto fantasticando. Fantasticano sul come pagare i trenta mesi di stipendi arretrati dei dipendenti del Museo, facendo credere, però, che lo si deve a essi e alla loro forza politica; fantasticano su iniziative per il rilancio del Museo e già vedono frotte di turisti salire per le sue scale, dopo aver pagato il biglietto d'ingresso; fantasticano sul numero di novelli sposi, che pagheranno per essere immortalati in foto ricordo davanti all'Ignoto Marinaio, che ne avrà ben donde di sorridere.
Fantasticano, insomma, come fantasticava la bambina di una famosa favola, che recava in testa un paniere con le uova da vendere al mercato e intanto nella sua mente investiva il presunto ricavato, gioendo al pensiero dei suoi futuri grandi acquisti. Camminava e a ogni passo si sentiva sempre più ricca, quando inciampò su una pietra e le uova finirono rotte per terra. Il sogno era finito!
Lo stesso accadde, quando la campanella smise di trillare e il treno apparve, procedendo lentamente e sferragliando. La locomotiva passò davanti alla pensilina, sotto la quale stavano gli ansiosi, e fu seguita dai primi vagoni. I passeggeri, incuriositi da quel numeroso assembramento e dalla presenza di un uomo con una fascia tricolore, se ne stavano affacciati ai finestrini. Quando giunse infine il vagone con l'Assessore affacciato a uno dei finestrini, tutti cominciarono ad avvicinarsi, superando persino la striscia di sicurezza. Il treno sembrava fermarsi, quando l'Assessore, mettendo il pollice sulla punta del suo naso e facendo agitare le altre quattro dita, disse: Cucù! Marameo!
Sembrò un segno convenzionale, perché il treno accelerò e scomparve alla vista degli ansiosi. Ci vollero parecchi minuti prima che uno di loro ritrovasse la parola. Era l'uomo con la fascia, che disse: andiamo! Noi il nostro dovere l'abbiamo fatto. Non è colpa nostra, ma di...Si fermò, perché non aveva trovato ancora un nome per il capro espiatorio.

giovedì 27 ottobre 2016

L'Italia delle mance

L'Italia sembra un grandissimo bar o un altrettanto grande ristorante, dove i politici si siedono a bere e mangiare, lasciando poi una mancia ai camerieri; cioè, ai cittadini, che con le loro tasse hanno servito bevande e pasti. E non solamente servito, ma anche pagato! Eppure in tanti credono di essere stati ripagati correttamente con le mance!
Mi piacerebbe, invece, che essi si considerassero offesi da un simile comportamento dei politici. Certo, molti di loro offesi lo sono e non fanno altro che lamentarsi della politica, ma non sembrano avere le idee chiare su una corretta strategia di liberazione da questa tirannia della disonesta stupidità dei politici e dei loro accoliti o dei loro servi sciocchi burocrati.
Lo dico prima di proseguire: lo so che non c'è in questo momento un'offerta di idonea strategia, ma l'accettarne una non idonea non mi sembra una strategia idonea. Questo fatto dimostra soltanto che, quand'anche ci fosse una proposta di una strategia idonea, in troppi non la riconoscerebbero.
Allora? Se le cose stanno così, è assai difficile che l'Italia si risollevi e che i suoi cittadini la smettano di fidarsi dei ciarlatani, che promettono un futuro, mentre per colpa soprattutto loro muore il presente. Fidarsene equivale a sognare a occhi aperti, con la certezza che al risveglio scopriremo che non è morto soltanto il presente, ma che è nato morto il futuro.
Si tratta di una situazione difficile, che potrà risolversi soltanto a condizione che tutti i cittadini siano disposti ad ammettere i loro errori. Soprattutto l'errore di non aver deciso la scelta dei loro rappresentanti politici con un'attenta riflessione e con la consapevolezza dei veri problemi da risolvere. Senza questa consapevolezza, infatti, la scelta non può non ricadere su chi elargisce la mancia più ricca. Per averne contezza basta riflettere sul perché in prossimità delle elezioni si fanno così numerose le mirabolanti promesse di un ponte sullo Stretto, di finanziamenti milionari, di posti di lavoro, di abolizione di Equitalia eccetera. Tutte solo e soltanto mance! E per essere più sicuri che i cittadini non si vergognino di accettarle, li fanno vivere ormai in un continuo stato precario e nella più totale ignoranza, che stanno cercando di alimentare nei giovani con la loro buona scuola, che buona non è.
Ci sarebbe il cosiddetto nuovo che avanza, il M5S, ma non mi sembra che la sua strategia sia adatta a risolvere i problemi dell'Italia. A meno che non si voglia accettare il suo anti-europeismo come una panacea per tutti i mali e la politica economica di una Kirchner come idonea a salvare l'Italia, dopo che s'è dimostrata nefasta per l'Argentina.
Allora non ci resta che prendere coscienza di che cos'è la democrazia e di che cosa fare per trarne i maggiori vantaggi.
Se democrazia significa “potere del popolo”, essa funzionerà soltanto se il popolo questo suo potere lo eserciterà e non vi rinunzierà in cambio di mance e di cieca fiducia in un capopopolo. Esercitarlo, però, costa quantomeno la fatica di partecipare alla vita pubblica e non guardare ai propri politici come a semidei, dai quali dipende persino il pranzo per sé e per i propri figli; costa la fatica di leggere e quella di ascoltare; costa la fatica di usare il cervello per giudicare se le parole sono o meno soltanto vane promesse; costa la fatica di controllare quotidianamente l'azione amministrativa e politica dei rappresentanti. Costa, infine, il coraggio di sapere correggersi se la precedente scelta è stata un errore, dichiarandolo subito e a viso scoperto a colui che ci ha indotto in errore.
Ecco, questa è la vera democrazia e solo essa potrà salvare il futuro dell'Italia. Tutto il resto altro non è che mistificazione, che copre quell'immondo mondo dell'attuale falsa democrazia.